Diario intimo del mio diario 13/11/2018

Ciao,

voglio dirti subito che, per quanto non ti possa promettere niente e per quanto in tutta onesta solo per noia ti scrivo (“tu” che sei oggetto e termine), sperando segretamente possa apprezzare questa mia attenzione minima, avrei voluto, almeno in questi primi giorni essere più presente. Tanto per te, quanto per me.

Se non ti ho scritto ieri, o domenica, è semplicemente perché ho sperato. Sperato che lui mi raccontasse qualcosa e che magari io potessi riferirtela, commentarla, o anche trascurarti felice che lui sia tornato a parlarmi e a raccontarmi di sé.

Non so se sia la puerile speranza degli innamorati che mi porta ad aspettare le sue parole, un suo gesto o segno. Capisco, devo ammetterlo, che il suo modo di scrivere, per quanto stilisticamente e contenutisticamente molto povero, richiede tuttavia più tempo di quanto non ne necessiti al contrario io.

Lui scrive, io digito.

Il suo è un lasciare tracce e cancellature di tracce. Anche il rimosso di una traccia è traccia in lui, in me (in te), un errore è qualcosa che potrebbe non essere mai successo, una riformulazione non ancora avvenuta, una perfezione grammaticale e grafologica ed ortografica che lui non ha mai e non potrà mai raggiungere.

Io sono un foglio bianco che al solo desiderarlo, dopo ore e mesi ed anni di parole potrebbe in un secondo tornare bianco.

Per lui ogni gesto, ogni errore, ogni coscienza di ogni singolo errore, ogni correzione o accettazione di ogni singolo errore è una scelta ed una responsabilità. Ti concederò di sapere di me quello che deciderò di farti sapere e non parlo solo di fatti, pensieri, emozioni, ma anche di forme e stili e strumenti che possano servirti perché tu possa in un modo o nell’altro farti un’idea di me. Sarò quello che vorrò essere e a te non sarà possibile sapere se io davvero sia in quel modo oppure no.

Sono la mia volontà. Di me potrai vedere solo la mia volontà. Lui, invece…mi spiace quasi per lui (visto come mi basti aggiungere o togliere due parole per darti di me un’idea oppure un’idea diversa e questo solo per così “voglio”), lui è solo responsabilità. Responsabilità per qualunque cosa egli voglia o non voglia, qualunque cosa gli succeda o non gli succeda, per il fatto di esprimerla e come e con quale grafia e con quale tono e quando e sé.

Io voglio anche quello che posso non volere, lui è responsabile anche di quello per cui non ha nessuno responsabilità. Una “t” più o meno inclinata, una cancellatura, il colore dell’inchiostro, la complessità o la semplicità della forma.

Io, al contrario, posso decidere se nascondermi o mostrarmi in qualsiasi momento. Se farmi leggere o parlare solo a te. Lui, poverino, anche a fingersi privato anche solo a dirmi qualcosa lo pubblica, senza possibilità di ritrattare. Si, anche lui, potrebbe bruciare la carta grazie alla quale comunica con me. Ma smettere di comunicare con me sarebbe un cancellare sé stesso. Se invece io decidessi di rimuovere ogni singola parola che per un attimo lasci cadere qui, potrei eliminare tutto e solo tu e quello che di lui ti raccontassi smetterebbe di esistere, ma non io.

Tutto in me è bianco. In lui tutto, anche le poche parti più vivaci e colorate, son grigie.

Prima o poi, comunque, la smetterò di parlarti di me in funzione di lui. Prima o poi saprai di me in quanto me.

Forse già domani, se me la sentissi di prometterti alcunché.

Aiutiamoli a casa loro

Salvini ha giustamente fretta.

Vuol far passare il decreto sicurezza quanto prima forse per contentare la base, forse per mettere “in re” le sue uscite propagandistiche.
Ma potrebbe anche essere che questa fretta nasca dalla coscienza di chi sa di non essere il solo a voler, per un motivo o per l’altro, rientrare quanto prima “a casa propria” .

Questa mattina, A., una delle mie studentesse di “alternativa alla religione”, dodici anni, ghanese, mi ha detto che vorrebbe lasciare l’Italia quanto prima ma non può.

Mi ha detto anche che vuol smettere di fare alternativa, il che mi ha fatto pensare che la sua voglia di fuggire dal nostro Paese fosse dovuta alle mie “lezioni” (tanto mi sento responsabile per quell’ora a settimana), ma poi mi ha spiegato che lei è una ragazza curiosa e che è musulmana, ma vuole conoscere tutte le religioni ed è per questo che non vuol fare più “alternativa alla religione”.

Mi ha detto che la sua famiglia finalmente si è convinta e che forse questa sarebbe stata la nostra ultima lezione insieme.

Poi in segreteria mi han detto che “non si possono assecondare i capricci di una bambina” e che i genitori non hanno presentato alcuna richiesta in merito quindi le non può seguire l’ora di religione.

Qui ci sarebbe da confrontare questo caso con quello di Lodi e Riace ed altri, ma non è questo il punto di questo post, se non incidentalmente, se non per dire che non c’è alcuna intenzione di aiutare nessuno in nessun modo.

Lei vorrebbe andar via, vorrebbe tornare in Ghana.

Devo confessare che mi ha rattristato sapere che una ghanese volesse lasciare l’Italia, ho pensato che potrei capire un italiano che volesse lasciar l’Italia, ma una ghanese….
Ho cominciato ad interrogarmi allora sul perchè di questa sua decisione e come tutti quelli ai quali la vita non consente che siano ancora dei bambini son riuscito a ipotizzare solo ragioni banali, economiche, di comodo; ho pensato dipendesse dalla crisi che aveva reso il padre un disoccupato e non più in grado di vivere qui da noi, o forse uno spirito anticapitalista e scevro d’ogni sentimento “urbano” e che perchè avrebbe preferito crescere nell’aria aperta di una savana deserta piuttosto che nella nebbia deserta di Spilamberto, forse perchè vittima di atti di razzismo (per quanto improbabile in una scuola multietnica come quella nella quale mi trovo ad insegnare) si sentisse stanca, ad appena dodici anni, di sentirsi esclusa.

Invece no.

A., mi ha semplicemente detto che vorrebbe tornare in Ghana solo perchè lì ha più amici. Le ho chiesto se ne avesse anche qua e mi ha detto “si, ma non quanti ne ho in Ghana”. (Ka., un’ altra ragazza che segue lo stesso corso e a cui A. spesso suggerisce le risposte alle mie domande, mi ha detto che vorrebbe tornare nello Sri Lanka perchè la sua famiglia è quasi tutta lì-).

Vorrebbe tornare in Ghana A.

O in alternativa andare in Inghilterra (per quanto anche andar lì, le ho spiegato, non è facilissimo al momento).

Mi ha spiegato A. che era quasi pronta a rientrare, a Marzo, che era lì lì per ritirare il passaporto italiano (perchè ogni tanto vorrebbe anche tornare e sarebbe molto più semplce con un passaporto italiano), ma Salvini non vuole che torni e non volendo farla tornare le rende anche difficile andar via. Salvini ha detto alla sua famiglia, a Modena, che deve aspettare due anni per avere un passaporto che era quasi pronto per essere ritirato a Marzo.

Lei sorride e dice che, “pazienza”, aspetterà, ma Lei vuole tornare in Ghana.

Che poi mica deve essere chissà chè il Ghana, se Salvini c’è andato solo ieri e senza troppi problemi è già tornato.

La verità, lo capisce chi ha vissuto fuori o A. perchè ha solo dodici anni ancora è che in Italia non ci si può vivere (è troppo e troppo meno), ma non ci si può non dover e voler tornare.

No title yet

Now, I’m like Galileo or Copernicus. I mean. I’m  not going to say or write something which would change your life forever. I just say new things or at least old things, but still, in a differen way. I mean. I could say what all of you say. I love people, animals are great. we have to care about nature, each of us got the right to destroy their on life the way they want, drinking, taking drugs, sleeping all day long or simply getting married, as gay people want to do. We can respect the American president, mainly, at least the first time, cause he’s the first not white president of the states. But, when he has to deal with Putin, you can check the difference. I mean. We are all basicaly right, we just disagree with each other. No, really, tell me one fucking reason why we should all live on the same planet, somehow the same way, agreeing on something, just to have something common to discuss about. So, I’m not Galileo or Copernicus or Mozart or Charles Manson, but, do you think they ever gave a shit about the consequences? We are creating ourselves a neverending present, with our chins up, like those who walk into the future, looking back and asking in a pretentious way to the past if it’s still there, like those who don’t care and pretend to care. The Pope, Renzi, Grillo, the “mud angels” (a new boyband from Genova opening the news), me, Manson, or Galileo or whoever.
So. Let’s start over.
Does any of you remember, EXACTLY, repeat what they said or thought 20 minutes ago?
First check the hour, then count back, then count back back just to be sure it’s the EXACT hour the same we checked before, and so on.
Now, does any of you remember what was the first question? You just need capital letters sometimes to confuse people. It’s like 14 minutes I’m writing (I was going to type “righting”) and I still don’t know what for and mainly I don’t get why you are reading it.
It’s a kind of blasphemy to feel like God, when he’s creating a world and before taking a nap saying: “And since now on I don’t give a fuck”. Then kids grow up and the first place where you decide to send them as soon as they learn how to scream “Dad!!!Dad!!! I want to go somewhere on holiday” is Palestine. “Sure son, I booked you a flight from Polinesia to Jerusalem. Don’t be scared by Jew or Arabs, I suggest you to hate Romans. They are all dead. Hate them. They were bad to both of the others, and, as I said when I created the world: Go there. Enjoy it. “”And since now on I don’t give a fuck””.
Words are the XXI century Cadillacs. They are the easiest and best things to sell. Though our Italian former former former Prime legitemately elected Minister had other products to work on (not belonging to the not human stuff).
Words are women, also for women. They mean what they want themselves to mean, even if you understand them. You can say the sweetest thing screaming, or the cruelest one whispering, it doesn’t matter. But as I said I still don’t get why I’m writing and mainly I don’t get why you are reading.
I’d love to confess everything, but if I say those words…I don’t know, if I was acting they would sound somehow more sincere.
Besides, the cops are not really willing to make me talk. Cops has to read and check so many things, everything, all the time that they cannot waste time on a spontaneous statement of facts. The ger every years their tasks, filling the calendar. August on pause. September/October is usually terrorist or pestilence, December/January drunk drivers on skating rinks, April is for first notes on tax evasions, and once a month, all month, people arriving from somewhere doing whatever…migrating, demonstrating, supporting, people with nothing better to do, than doing things.
I was one of them and I wanted to confess it. They set me free without having ever held me. So now I had once again to do something to have something to do.
Let’s start over, though I don’t really know what it’s this first part worth for.

Viaggio in Spagna 8 – Il giorno del turista

birmano+3

 

Provo a cambiare atteggiamento, risalendo i giorni, quasi sapendo cosa succederà o conscio di quanto è già successo.

Oggi regali. È solo l’ennesimo tentativo di avvicinamento, reciproco, tra me cugino straniero e gli indigeni. Incontri e regali. Scuse preventive e dovute, riconciliazioni di buon auspicio e saluti. Non ho nessun souvenir per quelli che mi hanno aiutato prima di partire e che forse mi accoglieranno al ritorno. Vorrei solo comprare delle scarpette da bambino ed un pelouche. Dovrebbe comparire la persona giusta a cui regalarle, ma non ci sono garanzie in merito.

Comincio a camminare prestissimo per le strade, madrileno e straniero, a cercar negozi, a comparare prezzi.

Sembra che anche in Spagna, come in Italia per i ragazzi e gli uomini, calcio a parte, non ci sia nessun negozio che si interessi del loro vestiario.

Sono le donne a mandare avanti l’economia, con i loro consumi e con le tariffe agevolate a cui prestano la loro manodopera. La logica del mercato moderno si basa su questo, ossia sul fatto che il lavoro, da un lato venga “dato” e dall’altro “prestato”. Il tributo in plusvalore consegnato al proprietario o all’imprenditore è solo un segno vago di una vecchia gratitudine.

Le grandi catene di distribuzioni hanno di tutto per tutti (per quanto il settore “donna” sia sempre più ricco), ma vorrei evitare di comprare qualcosa che chiunque potrebbe comprare. Tra gli acquisti, che mi riprometto di fare, c’è un ventaglio spagnolo, ma posticipo, mi racconto che ne troverò comunque sempre ovunque e che non è indispensabile comprarlo subito. E se poi lo rompessi? E poi, apprezzerebbe mia madre il fascino di un ventaglio spagnolo senza le palme e le strade sterrate ed i paesaggi di questa terra, senza sentire un’arsura che ti assorbe e ti rende parte di se?

Tornerò, forse un giorno e mi occuperò dei souvenir.

Son giorni ormai che mi consiglio di fuggire e progetto di tornare. Per giorni non farò che questo. I souvenir, in fondo, non son che bandierine da tenere in casa per ricordarsi delle conquiste che ci siamo concessi, per qualche giorno, negli anni, mentre adesso non so se questo mio star qui abbia alcun termine o ragione.

Ci penso tanto che non ci dovrei più pensare.

I pelouche son giusto dietro l’ostello. Non quelli che avrei voluto, ma comunque carini, coccolosi, degli animalucci di quelli che sicuramente piacciono. Alcuni sono anche abbastanza originali, da mostrare come trofei di caccia ma, onestamente, poco pratici per un abbraccio; gambe rigide, tenere orecchie appuntite, troppa plastica per dirsi pelouche. Scoiattoli, orsi bianchi, gatti, leoni, scimmie, piccole iguane, conigli, cani, balene, elefanti. Tra di loro perché ci sia una qualche differenza di valore, si adotta come discriminante non la specie o la razza, ma l’età. Più vecchio, quindi più grande, quindi di maggior valore.

La Spagna mi sta riconciliando, da Calimero in poi, con gli animali. Non che prima li odiassi, ma adesso quasi riesco a tollerare anche quelli che li amano spesso più degli umani. Quello che ancora non riesco a considerare seriamente come attività umana, non è più la cura di un animale, o il regalarne, di vivi o di finti, ma l’idea di acquistarne.

Mi annoia questo giorno, eppure la routine che gli chiedo di offrirmi, considerati i giorni precedenti e quelli a seguire, è quasi un rifugio che ho sperato mi venisse concesso.

L’acquisto è un’attività semplice. Si entra in un negozio, si guarda un po’ la merce, la si prova, la si compra e ci si saluta. Per me è così almeno e non so se sia corretto o scortese far così. Meglio far perdere tempo ai commessi con mille domande, chiedendogli dei suggerimenti, simulando un desiderio ed un interesse che è già quasi bisogno di comprare quella cosa lì e solo quella, oppure in tre minuti, chiedere di quello che cerchiamo e se c’è bene altrimenti salutare educatamente e cercare altrove? In che modo mi mostrerei più perditempo? In che modo più determinato ed interessato?

Il fatto è che questi animaletti son così carini. Son credibile nel dirmelo, spero di esserlo anche nel dirlo. Mi piacciono davvero tanto. Senza alcuna ironia. Ora il mio problema non è con loro, ma con i soldi per comprarli. Anche la tenerezza si compra e costa, ed in circostanze come queste, sembra essere anche abbastanza cara.

A vincere è un gatto, panzone, con un pelo striato di ocra e di giallo su un fondo bianchissimo, pelo morbidissimo, da abbracciare la notte in mancanza di meglio e lo guardo con gli occhi di chi pensa che sia difficile trovare di meglio. Gli stessi occhi di chi non vuole farsi assorbire dallo stress della selezione artificiale.

Lo compro. Completato l’acquisto mi sembra di meritare delle informazioni per trovare delle scarpe per un bambino di tre anni e mi fan sapere che l’unico negozio in zona ha chiuso giusto due settimane prima. In centro, a Madrid, in strade affollatissime, dove tutte le attività, se non son piene, sono almeno visitate da turisti più o meno curiosi e danarosi, non si trovano due scarpette per un bambino di tre anni.

Cercherò le scarpe nel pomeriggio. Torno in ostello per lasciare il gattino (una gattina, sfortunatamente, in realtà). Devo tornare anche per vedere se a giorni potrò spostarmi a Barcellona, o se in alternativa dovrò tornare a Valencia, o ancora se non sia meglio cercare un collegamento da Madrid con l’Italia. Qualunque cosa sarà pur sempre meglio dello star fermo qui tra vetrine o dietro delle vetrine.

Arrivo nelle varie città, ogni volta, con l’intento di fuggirne. Credo sia un calco della prima impressione che mi ha fatto Bologna, anni fa, un porto di mare, dove approdi per ripartire. Non ricordo più se l’abbia già detto (son passati dei giorni da quando ho messo mano a questo diario di viaggio), ma io sono una persona che mette radici prima di mettersi in viaggio.

Per rendermi meno penosa la ricerca di alternative, senza farle crescere senza controllo, senza che io aggiunga confusione a quella che comunque mi ha accompagnato fin qui e che aspetta solo che io esca per confondermi ancora, mando un messaggio ad una ragazza che mi avrebbe dovuto ospitare   e rimaniamo d’accordo che da lì ad un’ora potremmo pranzare assieme. Convincerla è stato semplice, accettare le sue condizioni un po’ più difficile, come per me limitare le mie richieste.

Essere un semplice turista è stata una copertura che ha comunque retto poco agli occhi di quelli che mi sono intorno. Il mio voler passare inosservato ha attirato la loro attenzione. Il mio desiderio di scomparire ha concentrato su di me i loro sguardi. Un unico obiettivo puntato contro di me. Come quello della tv che si è appena presentata alla reception.

Sono venuti per un servizio nel quale avrebbero parlato di quanto fosse facile trascorrere una giornata a Madrid con meno di venti euro. Alla telecamera si può solo mentire, così, una delle ospiti, sarebbe stata invitata a dire che dormiva lì per tredici euro quando in realtà la stanza più economica costava diciassette. Convincere questa ragazza, M., un medico colombiano temporaneamente senza lavoro è stato abbastanza difficile. Lei insisteva per evitare di comparire in tv così la reporter a chiesto a me e ad un altro ragazzo se per caso parlassimo spagnolo. Lo spagnolo ha detto di no, io, pensandomi già in un film di Almodovar (che sicuramente mi avrebbe per caso visto in tv e si sarebbe interessato alla mia espressività corporea e facciale), ho arrogantemente risposto alla domanda nella loro lingua. “Si”, in fondo, dovrebbe essere abbastanza uguale nelle due lingue come suono.

Mentre la giornalista mi intervistava, sulla velocità della connessione internet, sulla qualità dei servizi, sulla mia contentezza nel trovarmi a Madrid, io mi concentravo sullo schermo del computer. Mi rasserena, adesso, pensare che la mia intervista sia stata tagliata perché non guardavo né lei né la telecamera. La seconda ipotesi che mi è sembrato più logico avanzare era quella secondo la quale la mia intervista serviva solo a rendere meno timida la colombiana, che sarebbe stata intervistata subito dopo di me, e rendere lei la figura centrale del servizio con una piccola parte, aggiunta all’intervista, in cui avrebbe dovuto mentire ancora, fingendosi impiegata alla reception. La terza ipotesi, quella che una mente sensata e meno paranoica della mia, ma non per questo più attenta ai dettagli ed alle circostanze, considerati i giorni i giorni precedenti e quelli a seguire, consisteva nella necessità degli spagnoli o di chiunque altro stesse partecipando a questa studiata messa in scena, di localizzarmi, di sapere dove mi trovavo, dove dormivo. Seguire i miei spostamenti. In serata a quest’idea si sarebbe legata la delusione per il taglio della mia intervista nella messa in onda del servizio.

Esser divi è una prospettiva che affascina tutti, anche perché Warhol ce l’ha promesso.

Più tardi, seduto al tavolo assieme a J, la ragazza che avevo contattato, mi sarei mostrato felice di quanto mi era successo poc’anzi in albergo, contento di essere a Madrid, lieto di conoscerla, grato nei suoi confronti per avermi fatto conoscere un ristorante, rigorosamente in pieno centro, dove con dieci euro potevo scegliere un primo, un secondo, un dessert ed una qualunque bevuta.

“Oggi” però sono io al centro dell’attenzione. Il mio fare acquisti deve davvero averli messi sull’allarme.

  1. è una ragazza un po’ corpulenta, con un bel seno, labbra carnose e capelli selvaggiamente mossi. A tavola fumo e, puntando il fumo che sale dalla sigaretta sbircio nella sua scollatura. Questo non la offende o forse non ci fa caso o semplicemente non se ne accorge.

Comincio a parlarle dicendole che mi spiace per averla in qualche modo turbata chiedendole, mentre ci scrivevamo precedente, di vederci un paio di giorni e che davvero sarei stato felice di conoscere anche il suo ragazzo. Mi confessa di essersi davvero spaventata per questo mio approccio ma che incontrandomi si è tranquillizzata e che finalmente poteva confessarmi la sua menzogna. Tre anni prima stava per sposarsi quando lui dopo una litigata, ad un giorno dal matrimonio l’ha lasciata. Da quel momento, a suo dire, la sua vita è cambiata in meglio. Cambia tre o quattro ragazzi al mese, storie brevi, senza nessuna seconda intenzione, deludenti dopo poco ma comunque entusiasmanti. Ricordi da relegare al capitolo “hobby” o “abilità” di un curriculum in continuo aggiornamento. Il fatto che lei sia, in un certo senso, come sperava io non pensassi lei potesse essere, mi confonde. Avrei scoperto che non esiste nessun ragazzo in realtà, come mi aveva detto in chat, ma che solo per limitare le mie premesse e per tutelarsi se n’era inventato uno. A pensarci adesso, forse, tutto quello che mi è successo è solo quello che ho richiesto che mi succedesse. Deludono comunque le speranze quando, in un modo o nell’altro, non sono più tali. Non mi piace, me ne convinco. Le convinzioni sono più consolatorie delle speranze spesso, come quella che questo sia l’evolversi di un qualche complotto o piano ai miei danni, piuttosto che non lo sia.

Comincia a far domande. L’avevo contattata per un posto letto per alcune notti e mi ritrovo ad essere quello col faro puntato in faccia, per l’ennesima volta, durante un interrogatorio.

“Perché sei a Madrid? Hai visitato altre città in Spagna? Vuoi visitarne altre? Quanto ti fermi? Che lavoro fai? Studi? Ti piace la Spagna? Ma è vero che voi italiani siete romantici? Fai dello sport? Ascolti della musica? Leggi? Viaggi tanto? Che lingue parli?…”

Rispondo a tutte le sue domande. Divertito da una bambinona di trent’anni curiosa come una ragazza di dodici. Non badavo neanche tanto al contenuto delle risposte. Rispondevo correttamente a quanto mi veniva chiesto, ma non avevo alcuna strategia per conquistarla o colpirla in qualche modo. O meglio, una strategia ce l’avevo, la peggiore di tutte, considerati gli esiti personali ed il complotto generale. La sincerità.

“Una vacanza, solo una vacanza. Son stato a Valencia prima, vorrei visitare Barcellona (dopo questo passaggio lei si attiva per mettermi in contatto con degli amici di Barca senza alcun esito), ma se non riuscissi a trovare ospitalità lì probabilmente rientrerò, a Valencia o in Italia. Dovrei andar via da Madrid tra qualche giorno. Al momento non lavoro ma sto preparando un certo progetto, vorrei finire il mio secondo corso di studi prima di tornare a lavorare, sperando che sia possibile. Se mi piace la Spagna? Ho visto poco, bella e sospetta, come tutte le cose belle mi verrebbe da dire se questo non fosse un dialogo tra persone convenzionali. Non faccio sport da tanto. Ah, tu vai in palestra? Si vede, hai un corpo tonico e forte. Ascolto un po’ ogni genere di musica e se mi capita mi piace leggere anche. Quante lingue parlo? Nell’insieme direi cinque, alcune le invento, altre le ricordo appena, altre le dovrei recuperare completamente.”

“E circa il romanticismo degli italiani?”

“Cosa vuoi che ti dica? Se ti fa piacere sentirlo confermo la tua ipotesi con le parole e con i fatti. Non so quale sia lo standard spagnolo di romanticismo. Se si tratta di uccidere tori o elefanti no, gli italiani non son così romantici, troppo pigri anche rispetto a voi per esserlo. Se si tratta di comprar regali per qualcuno i cui occhi renderanno un regalo un spreco, beh, è già più probabile. Di base credo gli italiani siano più latin lover che dei soggetti “romantici” nello stile. Vivono di reputazioni, mentre le infangano.”

“Non capisco quello che dici. Ascolta, che programmi hai per il pomeriggio?”

“Non saprei, facciamo un giro a casa tua?”

“Per cosa?”

“Sottoporre alla prova dei fatti le voci sul romanticismo italiano”

“Non capisco molto di quel che dici ma mi affascina la vostra lingua”

“Si si, lo so, non io potrei mai piacere, ma il mio essere italiano. C’è tanto di quel razzismo di questo tipo nei miei confronti ogni volta che vado all’estero. Allora, andiamo da te?”

“Ma no, per chi mi hai preso?”

“Sei stata tu a dirmi dei tuoi tre amanti al mese. Siamo all’inizio d’agosto, magari potresti portarti avanti con la collezione”

“Ma dai…” ride lei

“E allora niente, dovrei comprare delle scarpette per un bambino”

“Per chi?”

“Un bambino che neanche conosco”

“E perché devi?”

“Una lunga storia. Voglio, più che devo. Solo che sembra non abbiate bambini in Spagna a giudicare dai negozi di scarpe per bambini che ho, o meglio, non ho visto in giro”

“Possiamo andare all’H&M, lì sicuramente ci saranno”

Andando via rimprovera degli zingari che si erano avvicinati ed urla ai camerieri di recuperare in fretta i nostri soldi prima che gli stessi glieli portino via. Anche il francese mi aveva messo in guardia a proposito degli zingari dicendo che in Francia mai si sarebbero avvicinati a dei soldi lasciati sul tavolo di un ristorante, ma in Spagna…Tutta questa diffidenza nei confronti dei Rom non fa che raddoppiare i miei sospetti ed i miei dubbi, anche in una giornata dedica alle attività di routine per un turista. Non mi fido dei Rom, né di chi mi mette in guardia nei loro confronti.

Andando verso uno degli empori di vestiti identici in ogni parte del mondo, come il sistema li vuole, incontriamo per strada bande organizzate di sciuscià messicani, residui post bellici e post coloniali. Mi guardano e mi invitano con gli occhi a sedermi per lustrarmi le scarpe, ma anche ad averli ai piedi dei mocassini il caldo madrileno scioglierebbe il lucido in meno di cento metri di trattini alternativamente tracciati sul marciapiede. E poi, con quella pelle così poco europea, zingara a suo modo, non me la sento di sedermi ad uno dei loro scranni. Nei loro occhi c’è come una rabbiosa minaccia. Tuttavia c’è anche, non so, come un timore nel parlare pubblicamente di quello di cui mi potrebbero parlare. Ma come fare lì, nella via più commerciale di Madrid, sotto gli occhi di tutti. Forse la mia paura è solo imbarazzo, forse dovrei avvinarmi, forse…

“Io d’inverno mi faccio lustrare le scarpe almeno una volta a settimana” dice J. “fanno un ottimo lavoro questi messicani”

“Se le vieni a lustrare una volta la settimana d’inverno, ed immagino tu ne abbia tante di scarpe essendo una donna, non fanno poi davvero un ottimo lavoro” provo a scherzarci su io, anche se in realtà penso “sicuramente il governo per cui mi ha detto di lavorare per una busta paga da fame le ha promesso un aumento il prossimo mese se riuscirà a compiere una certa qual missione o se sarà capace di strapparmi delle informazioni o quantomeno se per un giorno potrà tenermi lontano da quelli che, non so, magari, forse, potrebbero…”

Più della violenza, la cortesia mi è sospetta. In questo esatto momento, di descrizione e di cosa descritta, l’aiuto mi è più sgradito dell’ostacolo.

Ci vogliono un paio d’ore per trovare il negozio di scarpe. Poi lei va via, a raggiungere un’amica mi dirà.

Io rientro in ostello senza nessuno a cui regalare quello che tanta fatica mi è costato trovare.

Nella camera in cui son stato spostato c’è una ragazza tedesca che è in viaggio con la madre in sostituzione del compagno della stessa che ha paura di volare. Facciamo due chiacchere. Le chiedo se posso togliere i pantaloni e dormire un po’.

“Fa come se fossi a casa tua” mi dice sorridendo maliziosa come un’esperta Lolita prima di scendere sensualmente goffa nella sua arianità dal letto a castello sul quale era stesa a leggere. Le sue gambe lunghe potrebbero toccare il pavimento in due movimenti, ma lei, sporgendo in maniera involontariamente provocatoria e sensuale il suo piccolo culo rotondo e germanico poggia il suo piede da tagliaboschi nano su ogni gradino.

Ci proverei anche. Ma son stanco e per oggi con le donne ho chiuso.

Viaggio in Spagna 7 – Guernica – (parte terza)

los

 

Sarebbe molto meglio se me ne andassi a dormire, mentre scrivo e nel momento di cui scrivo.

Non so più perché stia scrivendo questo testo. Più vado avanti aggiungendo pagine e parole a quanto già raccontato, più mi allontano dall’inizio della storia in se, e dalla sua fine. I ricordi più lontani si fanno ogni giorno più irraggiungibili, quelli più vicini in qualche modo superati. Prendere le distanze dalla vita, anche solo per parlarne, è un’attività fiaccante. In questo preciso momento ho ritmi molto più lenti. L’energia che mi ha mosso e che aumentava a mano a mano che la consumavo, adesso che non ne uso più e come se non ne avessi.

È ancora Guernica.

Anche nel momento che racconto. Tutto è fermo in mezzo a gruppi organizzati di caos continuo. La neutralità del francese, abbandonandomi un attimo al mio bisogno di prender coscienza, mi mostra come tutto intorno le scelte a mia disposizione (a nostra, se non voglio che lui torni a fiancheggiare gli spagnoli) cambino, si tirino indietro, mi urlino contro, allontanino me, stiano lì ferme senza neanche mostrarsi quali possibili opzioni.

Due sudamericani ad un tavolino mi chiedono d’accendere e mentre lui è a prendere qualcosa da mangiare io ci scambio alcune parole. Raccolgo informazioni, non so quanto utili, né quanto interessanti, su i loro viaggi, sulle volte che son venuti in Spagna a lavorare e poi son rientrati, chi in Ecuador chi in Bolivia. Li saluto dopo qualche minuto, allarmato dal primo accenno di rissa a pochi passi da me. Alcuni ragazzi, usciti quasi correndo dal pub si mettono ad urlare, altri tra loro, senza toccarli e senza che si notino i presupposti per una scazzottata, si mettono tra loro formando due linee orientate ciascuna verso ognuno dei due litiganti. Improvvisamente uno dei due salta e prova a colpire l’altro, al di là della cortina umana, con un pugno in testa; quest’ultimo dapprima schiva il colpo, poi corre via, si ferma qualche metro dopo per accertarsi di non essere seguito, poi ricomincia a correre. Il chitarrista che per ore aveva suonato al baretto con la birra a quaranta centesimi torna, si muove verso di me e mi chiede se voglia comprare “qualcosa”. Rifiuto e lo ringrazio.

D., il mio amico neutrale alla ricerca disperata di compagnia per la notte, torna, mangiando così avidamente il suo hot dog che non me la sento di accettare il suo invito ad assaggiare.

“Dove andiamo? Dove andiamo” chiede elettrizzato, come se lui, al contrario di me abbia fatto acquisti presso il musicista. Non posso credere che sia la senape ad averte simili effetti.

Ci dirigiamo verso un discopub irlandese dove, passando precedentemente, avevamo visto che stavano cercando personale. D. è un cameriere e sembra tutto sommato entusiasta della vita a Madrid. Stima per entrare quando, un buttafuori, apparentemente dell’Europa centrale, prova a trovare mille scuse per non farci entrare. Non capisco il suo atteggiamento. Siamo alticci si, ma all’apparenza sobri e, comunque, siamo dei turisti. Generiamo aspettative, ma tra le cose che ci aspettiamo c’è il riconoscimento del diritto ad ubriacarci. Le conseguenze dei nostri atti saran nostre, ma ci dovrebbe essere concesso prima di poterli compiere almeno. Alla fine, sconfitto anche nel suo ultimo tentativo di respingerci, chiedendo la carta d’identità a D., ci lascia entrare, dissimulando espressioni da agente che sta solo svolgendo gli accertamenti per cui è pagato.

Entrati, come aveva fatto per quasi tutto il pomeriggio, D. prende il suo iPhone, controlla tra i contatti quelli di alcune ragazze conosciute su Badoo e a cui non ha fatto che chiedere “in francese se oltre allo spagnolo parli anche inglese”. Entrati nel pub, prendiamo due birre, ci sediamo e lui continua a digitare delle frasi sul suo iPhone. Mi chiede poi di verificare se la frase tradotta in spagnolo sia corretta. Gliela correggo. Va da due tipe al bancone per invitarle a bere con noi; torna dopo un po’ e mi dice che son francesi, quindi gli chiedo di cosa abbiano parlato e comincia a fare il vago. Da mercenario per gli spagnoli a svizzero per alcuni minuti a pienamente francese poco dopo. Lasciarlo ai primi forse sarebbe stato meglio. Esco a fumare e provo a chiarire col buttafuori, un bulgaro scoprirò poi, che volevamo solo prendere la birra e che il francese voleva anche lasciare il suo CV. Non so perché gli parli del francese. Lui si mostra professionale, dice di far consegnare il curriculum e poi mi intima di spostarmi.

Sono circondato da persone di cui non riesco a fidarmi e non faccio che cercarne altre nella speranza che siano diverse dalle prime e sempre mi trovo con un senso di solitudine ed abbandono che cresce insieme alle alternative deluse. Il buttafuori mi trattiene, invitandomi a finire la sigaretta prima di rientrare e di spegnerla nell’apposito posacenere. Appena sono in sala vedo subito D. che continua a parlare con le due ragazze francesi, come se il bulgaro, nell’auricolare, sentisse la loro conversazione ed aspettasse il segnale per farmi entrare. Non so se avvicinarmi a D., se salutarlo, se dirgli che vado via, se far finta di niente. Non sono paranoico, son solo da solo, confuso e senza la benché minima fiducia in nessuno, ma non sono paranoico, tant’è vero che alla fine raggiungo il mio “amico” chiacchiero un po’ con lui, rido, scherzo, fingo buon umore; solo in un secondo tempo mi faccio vedere stanco, assonnato, un po’ indisposto fisicamente. Faccio per salutare e D. decide di venire con me. Ha la scusa della riconoscenza per farlo e poi da solo, francesi a parte, non saprebbe con chi parlare. Adesso è lui che io non mi allontani, che, forse insospettito dal mio vedermi parlar con tutti, pensa che io stia tramando qualcosa. Magari sospetta che, intuendo io in qualche modo che lì avrebbe trovato dei francesi, abbia in qualche modo chiesto al bulgaro di impedirci di entrare. O forse più semplicemente, dopo aver parlato con le francesi ha preferito affidarsi all’italiano.

Ma no, non può essere così. È solo Guernica, il caos che vien fuori da ogni squarcio di tela e che ti imprime addosso e dentro, che mi rende timoroso e sospettoso, quell’umanità morente e quindi ancora viva.

Non capisco cosa io ci stia facendo dentro questo enigma, né come uscirne. La realtà non sarebbe meglio, da quanto ricordo.

Con il francese decidiamo che potremmo anche rientrare ma sulla via di casa incontriamo a alcuni ospiti dell’ostello dove sia io che lui abitiamo. Sono dei volontari impegnati in non so quale progetto, persone dal buon cuore, immagino e poi troppo giovani per poter rappresentare tanto per me quanto per chiunque altro un qualunque pericolo. Ci scherziamo un po’ assieme.

Un breve passo indietro.

D., mentre rientravamo, aveva comprato una rosa, con l’intenzione di regalarla alla barista del secondo pub che avevamo visitato. La calca al bancone lo aveva fatto desistere. Aveva ancora la rosa con se, intenzionato a regalarla alla prima che avrebbe incontrato per strada. Son fatti così i francesi; non sanno esprimersi, ma son così carucci quando fanno i romantici.

Raggiunto il gruppo dei volontari, io mi fermo a parlare con degli spagnoli del luogo e lui va diritto a dare la rosa ad una del gruppo. Passano pochi istanti che sento qualcuno urlare e vedo D. che torna indietro a cercarmi. Mi spiega di aver regalato la rosa ad una ragazza, senza sapere che aveva il ragazzo lì in zona e sembrava che il ragazzo non volesse saperne di spiegazioni.

Son tanto cari quelli che si dedicano al volontariato. Persone uniche, quando possono scegliere a chi dedicarsi. Un cuore d’ore, freddo, pesato, inutile tutto sommato. Un piccolo evento nella vita quotidiana ed il cane che han dentro si libera del vincolo di un muscolo placcato e ruggiscono e ringhiano e urlano. Mentre provo a chiarire l’accaduto, guardo e non posso non guardare; labbra carnose su una pelle da ventenne, capelli biondi, occhi di un azzurro che non ha nome. L’avevo già vista nel corridoio ed in cucina in albergo, troppo bella per parlarci, poco tempo per conoscerla, ancor meno per sperare. Inoltre ha un ragazzo, olandese. Ci ha parlato per mesi su internet, “una storia importante”, anche considerato questo presupposto e la distanza.

Dopo alcuni minuti che parliamo in polacco (lei è di Lodz) si muove un’ondata comune di panico da una parte all’altra del gruppo. S., un loro compagno, il più giovane della comitiva è scomparso ed era particolarmente ubriaco. Già la sera prima, mi racconteranno poi, aveva bevuto tanto e voleva uccidersi. Partono le ricerche e dopo un po’ lo troviamo seduto vicino all’albergo. Provano a parlarci, ma appena egli nota il loro avvicinamento, si allontana.

Volevo stare in pace col mondo oggi, ma è ancora Guernica.

Raggiungo S., ci scherzo un po’ assieme. Ai polacchi piace bere e non apprezzano chi non li apprezza per questo. Intuisco un suo interesse per E., la ragazza di Lodz e capisco che il suo problema fondamentale è simile al mio, ossia l’eccessiva ed irritante presenza degli altri, il loro ossessivo preoccuparsi e prendersi cura di lui. Sembra che beva perché l’han convinto in qualche modo di avere un problema con l’alcool. Con me ride, si confida, vuole solo camminare un po’ e distrarsi, ma arrivano presto due angeli custodi, da guardia, norvegesi, che mi ringraziano per il mio aiuto ma mi chiedono di lasciare che se ne occupino loro. Io chiedo a lui se va bene. Lui fatica a rispondere. Non risponde.

Lascio stare. Fare del bene è fare un errore mi dico e mi allontano. E. bacia il suo ragazzo, gli altri mettono tanto di quel pathos nel mostrare apprensione che sembrano degli attori da poco o spudoratamente falsi.

L’olandese si allontana un attimo. Chiedo ad E. se possiamo tenerci in contatto visto che sto per partire. Al ritorno di lui, lei me lo manda contro, a farmi pentire di averle parlato, a farla diventare una bellezza qualunque e poco più, a ridere dentro di me di essere trionfalmente umiliato dai miei sentimenti migliori. Chiedo a D. di testimoniare in mio favore, dopo una giornata passata insieme e di confermare le mie intensioni più buone in qualunque cosa mi sia capitato di fare fino a quel momento. Lui si avvicina dinoccolato, come tutti i giovani della sua età, infastidito, pigro, svogliato. Il tempo che ci impiega a fare cinque metri lo uso per dire all’olandese che non è successo niente e non succederà niente, di dimenticare che di lì a qualche ora non mi vedrà più, per sempre. Entrando dico ad un ragazza di Milano che il problema di S. sono loro con le loro attenzioni, che S. vorrebbe solo viversi come gli pare i suoi diciassette anni e che è un po’ tardi adesso essere “responsabili” dopo che per tutto il pomeriggio han fatto bere liberamente un minorenne. Lei sta per raccontarmi una storia lacrimevole e piena di preoccupazione e dolore e lamenti. La ringrazio, ma devo andare.

Oltre alla valigia da fare ho già altri problemi. Spero di incontrare la ragazza alla reception, o di poterle almeno lasciare il mio su un foglio di carta, per provocare un destino che non farò realizzare.

Viaggio in Spagna 6 – Guernica – seconda parte

Il Reina Sofia è un po’ fuori, dopo il Prado, un ex ospedale o una scuola adibita a museo. Abbiamo solo due ore per visitarlo, perché in Spagna, dopo una certa ora in poi (le sei per il Prado, le sette per il Reina Sofia) l’ingresso è gratuito. Non so se accada lo stesso in Italia, ma ne dubito. Mi lascio trasportare da queste piccole cortesie locali, dimentico, allora come ora, le mie idee paranoiche e folli e godo solo di quel che mi trovo davanti.

Il piano terra ha delle installazioni e, tanto io quanto G. il mio amico ci chiediamo se certe opere valgano un museo. Zizek potrebbe provare a giustificarlo, io potrei provare a dissentire da Zizek, ma tre sedie messe lì a caso, per quanto concettualmente legate a profonde riflessioni, per me son poco più di un salotto o di un’anticamera.

Noi siamo qui per altro. Per l’unica ragione per cui probabilmente la gente entra in questa struttura, che per i primi metri di bello ha solo la distribuzione delle stanze, i servizi, le scale e gli ascensori. A piano terra, insieme alle installazioni c’è come una mostra allestista per l’occasione sul franchismo, con documenti della propaganda del dittatore e manifesti di comunisti rivoluzionari. Fumetti, disegni, caricature, locandine per la difesa della repubblica spagnola asservita a Franco. Tante di quelle informazioni che quasi non servono messe lì, tutte insieme, come sono. A me le storie però piace vivermele, inventarle magari, ma doverle ricostruire, in base a testimonianze d’altri, mi sembra molto più falso, ingiusto, inappropriato.

È una giornata tranquilla, in cui succedono tante di quelle cose senza alcuna importanza, ma comunque a loro modo significative che è quasi un peccato ad un certo punto trovarsi di fronte a delle tavole con sopra centinaia di diapositive, da ogni parte del mondo, che sembrano quasi rimproverarmi il mio dedicarmi a musei e persone a Madrid quando c’è tutto un mondo fatto di montagne, monumenti, monasteri, animali che non ho ancora visto e forse mai vedrò. Viaggiare in fondo è solo allontanarsi da tutto il mondo e non avvicinarsi neanche un po’ a quello che si attraversa. Faccio delle rapide foto a delle foto e poi fuggo. L’arte è una distrazione nobile e su, al primo piano ci sono Mirò, Dalì, Goya, e soprattutto…

Mirò è un momento di passaggio, tra le noiose installazioni del piano terra e Goya. Di questo solo alcuni bozzetti, schizzi, carboncini su carta, quasi dei fumetti brevi per il suo secolo, reportage a matita di eventi e momenti più o meno comuni. Goya consola sempre con la sua tragicità e lascia a chiunque arrivi dopo di lui non solo di non poter fare niente di nuovo, ma quasi neanche di poterlo vedere. Il mio amico vorrebbe andare a vedere…ma no, quello è un momento da meritare, bisogna avvicinarcisi con prudenza e devozione, arrivarci preparati e sicuri di quello a cui si sta per assistere e prendere parte, come la prima volta che si fa la comunione, o ci si mette a guidare o si prende l’eucarestia o ci si lanci con un elastico da una rupe. Le esperienze uniche devono nascere segnate dalla sacralità di una primogenitura meritata.

Ci sono dei bozzetti di quanto stiamo per vedere, frammenti vari dell’opera completa, lampadine, fogli di giornale, teste di tori o di cavalli, figure contorte, nero, bianco, grigio. Un collage frammentato che fa quasi più male dell’insieme. E poi…no, no, facciamo finta di niente, anche per scattar delle foto nel caso, fingiamo di non essere qui per questo, “non voltiamoci” gli dico, come se non fosse qui, esordiamo con un “toh” che ce la renda più familiare, che ci renda più benvoluti.

Poi in silenzio pronunciare i nostri nomi e lei, mesta ed austera: “Guernica”

 

guernica

Non ce la faccio a dir “piacere”, non ce la faccio a vederla intera, meglio i bozzetti, fa male ma almeno li si può guardare, lei è troppo, troppa fine tutta insieme. Neanche la macchina fotografica, che è solo una macchina, non riesce a prenderla tutta col suo occhio solo e non perché ci sia gente pagata solo per godere ogni giorno di questa sofferenza tanto da sentirne quasi solo la noia e che impedisce con rigore di far foto, ma perché è troppo mondo, finito, tutto insieme. È come non avesse cornice. Si dimenticano e ricompaiono i Mirò, i fogli di giornale del piano terra, le sedie messe a casaccio in un grande salone, la tv, il cinema nella saletta con Bunuel ed i cinegiornali degli anni quaranta.

Che io sia qua per te Guernica? In fin dei conti, non è quello che mi sta succedendo? Tante meraviglie in bianco e nero, bruciate le une dalle altre, senza una qualunque ma insieme caoticamente in armonia, luci rotte appese e candele come ad invocare aiuto. Lo scheletro di questo viaggio son tori che guardano il cielo, cuori staccati, un’archeologia contemporanea di sempre nuove e varie rovine.

Devo allontanarmi. Chiedo al mio amico, a mo’ di scusa, incoraggiato dal custode che ci informa che il museo sta per chiudere, di dare uno sguardo a Dalì, per compensare la delusione di Mirò. Anche le delusioni tornano utili in questa Guernica.

Dalì fa rabbia: la sua tecnica, l’immaginazione, il suo prendersi gioco di chiunque lo guardi, un senso di limite di fronte a tutto quel mondo che non è mondo. Dalì rincuora di aver visto ed abbandonato, senza che mai c’abbandoni, Guernica. È troppa bellezza Dalì per non amare Guernica per quello che è.

 

uomo invisibile

Stanno chiudendo, bisogna fuggire, lasciare questi enigmi e queste verità brutali, salvarsi in strada. Mentre usciamo vediamo una donna, tunisina all’apparenza che era entrata con noi con un bambino in un passeggino e che adesso lasciava il museo da sola. Che l’abbia abbandonato? Che Guernica glielo abbia portato via? Succedono strane cose al Reina Sofia.

Ho bisogno d’aria e di una sigaretta e di una birra. Dorme, sui gradini dove mi metto a fumare, una guerra fredda nell’afa di Madrid, non si capisce chi attaccherà chi sia il nemico, chi l’alleato, chi sia in casa e chi in aereo. La guerra, ammesso che per questo sia qui, a voler considerare la Guernica il più chiaro degli indizi, è subdola, ti si attacca alla pelle con l’afa della città e ti entra in testa per osmosi.

Provo ad ignorarla.

Mentre siamo lì con G. alcuni italiani parlottano vicino a noi. Li invito a bere qualcosa in quello che è diventato il mio locale preferito, quello della birra a 40c, ma devono andare in aeroporto per un volo che parte di notte, e poi preferiscono mangiare qualcosa lì vicino, grazie comunque, ma no. Riprovo, con un secondo gruppo. La falsità sfrontata e quella cortese son solo due delle alternative possibili per nascondere la verità. Il secondo gruppo, usato come cavia per provare a me stesso una teoria che non ha norme ma che da tempo mi gira in testa, finge interesse, ride anche, scherza, promettono che ci raggiungeranno ed allora ci avviamo, io e G. ad aspettarli. A ciascuno il suo ruolo. Ci troviamo per caso a passeggiare per la Calle de las lettras, scattano foto o calpestando i vari autori lì ricordati a seconda della citazione, senza troppa adorazione né senza mancar di rispetto. Quiroga, Cervantes…altri…Una ragazza bellissima, poco più avanti, beve il suo drink da sola, seduta ad un ristorante troppo chic perché io, imbavagliato e legato dai suoi occhi che non mi abbandonano un attimo , possa fidarmi e provarci. Potrebbe anche starci, sorridermi, parlarmi gentile, così come potrebbe essere uscita giusto un attimo prima da Guernica ed essere lì, solo per aspettare me, per sapere da che parte sto, per conoscere i miei piani, perché mi trovi lì. Troppo rischioso, e poi sarei comunque impreparato, tanto ad un suo no, quanto alla sua curiosità. Proseguo, triste per la possibilità forse sfumata, e ancor di più per la mia incapacità di sapermi muovere in accordo con la città.

 

calle1

Madrid è così. La capisci subito, ma poi, piccoli accenni, lievi sfumature, ti rendono dubbioso, devi riconsiderare tutto e più ancora ti confonde quando torna a confermarti la prima impressione.

Una birra mi farà rilassare. I rumeni sono ancora lì. Scrivo al francese che non viene. Finita la birra vado a recuperarlo ma lui ha deciso di passare dalla parte degli spagnoli ed ora è in giro col pub crawling (gli spiegherò poi che pagare quindici euro per ogni pub visitato, per poter accedere ad una discoteca il cui ingresso costa trenta, non è un grande affare, se i pub da visitare son cinque).

Non so se possa fidarmi di lui. Qui chiunque potrebbe essere un nostalgico franchista ed io non ho l’aspetto di uno a cui il prete rilascerebbe con piacere il certificato di buona condotta. Perché se n’è andato? Perché è in giro con gli spagnoli? L’ho aiutato tutto il giorno ed ora, alla prima occasione passa dalla loro parte. Dopo un po’ rientra; volevano che si portasse dietro un documento per farlo entrare nei vari club. Questo è quello che mi racconta almeno. Decido di seguirlo, mi invita a sue spese a bere. A lui interessa solo di trovare una donna per passarci la notte, dove non si sa, ma è tutto quello che vuole. Ha diciotto anni, gli credo. Non posso sospettare di chissà quali piani un pischello francese che non sa parlare quasi nemmeno la sua lingua, un aspirante cameriere, che tutto quello che sa della Spagna è che non si possono lasciare i soldi per pagare i conti al ristorante sul tavolo in terrazza perché “in Francia sarebbe normale, ma qui in un attimo rubano tutto”. Ha paura anche lui, come me, forse più di me data l’età e l’impossibilità di chiedere anche solo aiuto se fosse in difficoltà. Non posso sospettare di lui. Ci fosse almeno l’italiano con me, ma sembra un così bravo ragazzo lui, legge Nietszche prima di andare a dormire ed è già andato a dormire. Devo star sereno.

Usciamo e, appena entriamo in ascensore, mi dice che non ha più bisogno della stanza per l’indomani, di avvisare la mia amica, che ha risolto con i tipi dell’albergo. Avrei dovuto portarlo dalla mia parte in mattinata, ma non con le mie offerte d’aiuto, le mie due ore di traduzioni, ma spiegandogli tutto, che c’è una strana aria in Spagna, cose troppo normali per poterlo essere davvero, che tanta tranquillità e giocosità probabilmente nasconde qualcos’altro, come il palazzo del Reina Sofia nasconde Guernica. Ed invece no, l’ho visto col suo valigione da quaranta chili per una settimana di vacanza, il suo cappellino blue in tinta con gli occhiali appena appoggiato in testa e girato al contrario. Non pensavo di dover temere demente, adesso che era dall’altra parte non potevo sottovalutare nemmeno lui.

Gli artisti di strada, stasera, non offrono spettacoli per famiglie. C’è chi si infila dei cucchiaini sotto le palpebre o delle forchette nel naso e non continua lo spettacolo se qualcuno si mette a filmare, un’allegra famigliola con gengive rossissime ed occhi gialli, ricoperta, come delle salme, dal catrame, nani con la testa sottobraccio. Arriviamo al punto d’incontro con la guida che i miei mille pensieri, la mia sfiducia nel francesi e gli spettacoli macabri che ho attraversato mi fanno esitare circa la possibilità di continuare la serata con lui o andarmene invece in giro da solo, continuar pure a dar nell’occhio, ma avere almeno il conforto di non essere affiancato da un tizio francese, appena conosciuto, più scattante ed agile di me sicuramente, che da un momento all’altro potrebbe tradirmi o dare un segnale a dei passanti a lui noti e buttarmi improvvisamente a terra o non so cos’altro. Per non parlare del fatto che ci si sarebbe potuti sbronzare con appena quattro euro. Lui insiste, deve sdebitarsi, dice. Io non lo lascio insistere oltre. Prendo le cose per come vengono, rinunciando a tutto oramai, senza chiedermi come possano andare.

“Bonsoir » * dice la guida. Lo avranno attirato così questo bambino sperduto, gli avran detto due parole in francese, gli avranno detto che con loro avrebbe avuto una riduzione alle quattro in discoteca e se lo son portati dietro, l’hanno arruolato ed io l’italiano, conteso come secoli prima tra Francia e Spagna, senza la scaltrezza necessaria per partecipare al loro banchetto.

Li seguo. Ce ne son tanti presi nella rete. Corpi ammassati in fila a caso, come in Guernica, presagi di quello che Guernica avrebbe rappresentato. Entriamo nel primo locale, io e lui, trenta euro restano fuori ; dentro ad attenderci una barista che non fa che accarezzarmi il braccio, una con un corpo bellissimo, seni enormi, che non fa che ancheggiare. La musica non è male. Io resterei, ma abbiamo appena quindici minuti prima del prossimo pub.

Qui a restar fuori son quaranta euro. Lui appena entra viene avvicinato da due ragazze che gli chiedono una foto. Consiglio di fermarci, gli faccio capire che il pub crawling non è un grande investimento e due ragazze che si fermano a parlare con noi sembrano al contrario un ottimo inizio. Lui esita, si lascia convincere. Non è dalla mia parte, ma quantomeno non è più con loro, già più svizzero che francese.

 

* Buonasera

(continua)

Viaggio in Spagna 5 – Guernica (prima parte)

« È lei che ha fatto questo orrore?»
«No, è opera vostra»
(Risposta di Picasso all’ambasciatore tedesco Otto Abetz, in visita al suo studio, di fronte ad una fotografia di Guernica)

DSCN3450

Oggi non dovrei neanche più essere qui, in questo punto di mezzo vicino alla fine, ma continuo a non capire cosa stia succedendo, né perché le cose più naturali ed ovvie siano così piene di mistero, messaggeri di messaggi da intuire, messe in scena senza una logica comune che però sembrano tra loro collegate.

In questo punto in cui sono e non dovrei essere, ci son le cose che succedono e poi ci sono io che faccio succedere le cose.

Mi volto indietro, mille volte ed in qualunque direzione orienti il mio sguardo è come se mai guardassi davanti a me, è un continuo cercar le mie tracce, un dedurre la meta da raggiungere dal verso delle impronte, per essere sicuri ad ogni passo, di seguire un sentiero che intanto si va tracciando e poter dire poi di non essermi perso, indicare la strada alle spalle come testimone e prova della propria provenienza. “Continuo di là, perché è di là che vengo”, indicando con lo stesso avverbio un verso opposto.

I passi che devo ancora fare già li conosco, devo solo raccogliere quelli già fatti. Nel punto in cui mi trovo ora sono io a decidere. Ma perché proprio qui ed ora? Ho scelto io queste coordinate? Se si, non dovrei lamentarmi della mia presenza, se no, come posso dire di aver in qualunque modo scelto.

Una volta lasciata Madrid sarà tutto più semplice, pensavo quel giorno e forse proprio l’essere stato in quel momento all’apice mi ha fatto sentire come se tutto intorno fosse stato prima deserto quasi e dopo abisso. La città sembra essere capitale senza averlo mai desiderato, è capitale perché flemmatica come Valencia e Barcellona, ad esempio non riuscirebbero mai ad esserlo, prima su tutte, a suo modo, per pura pigrizia. Dopo appena tre o quattro giorni ti rende cittadino onorario, ti educa ai suoi ritmi, ti cancella ogni preoccupazione o tristezza senza compensarti mai con altro, ti mostra come perdere tempo sia il modo peggiore per perdere tempo e ti aiuta a farlo.

In realtà è la penultima giornata in città, ma qui dopo un po’ tutto s’assomiglia e poi l’indomani durerà, come oggi, solo poche ore.

Sono nel piccolo salotto dietro la reception che aspetto, valigia accanto, che la nuova stanza in cui, per la terza volta in tre giorni dovrò traslocare, venga preparata. Ad accogliere o a salutare i clienti c’è S. una ragazza tra i venti ed i venticinque anni, carina, capelli castani, lunghi, occhi con un taglio quasi egizio, chiari, bellissime gambe sottili. Io son lì con M., una dottoressa disoccupata della Repubblica Dominicana che dovrebbe cercar lavoro e che invece ascolta soprattutto della musica dal pc e parla con degli amici. Cerco ancora, fingendo speranze, nascondendo un certo disinteresse, che qualcuno possa accogliermi a Barcellona. Intorno alle undici rinuncio e chiedo al gestore dell’ostello se può prenotarmi un biglietto sul bus dell’indomani per Valencia. Risolti i problemi di stampa, torno al mio divano ed alle mie stupidaggini su internet. Sono in Spagna, sto teoricamente viaggiando eppure me ne sto in un salottino di un affittacamere a parlare col mondo usando internet. Non si sfugge, in nessuna era, ai tempi moderni. Più che un vero e proprio viaggio è un tentare ogni giorno di trovare dei nuovi carcerieri ed inventare quotidianamente una nuova fuga. Il divano su cui siedo è il mio nascondiglio temporaneo.

Non passa molto tempo che arriva un nuovo ospite, un francese di vent’anni al massimo, ha con se una valigia abbastanza grande, dimensioni 100x25x60, nero. La sua ignoranza dello spagnolo e dell’inglese mi offrono una possibilità per aiutare Sara nella registrazione e così di parlarle. Le chiedo se possiamo tenerci in contatto e mi lascia come unico recapito quello dell’ostello.

In questo momento, ad esempio, c’era un complotto a muovere tutto, o non ero forse io a tuffarmi in situazioni che mi avrebbero potuto condurre chissà dove? Erano le circostanze ad essere così affascinanti da coinvolgermi o io troppo curioso da investigarle? O la mia indiscreta voglia di sapere è quanto meritasse il loro pianificarmi le varie vicissitudini addosso, e viceversa? Loro chi poi? I polacchi? La polizia spagnola? I bulgari? Sara? Il figlio del noto regista?

Questo francese? Non mi sembra un tipo molto raccomandabile. Non che abbia l’aspetto dei bulgari, nessun tatuaggio, nessun crocefisso in ottone lungo uno sterno, anzi, è un ragazzo con i capelli in ordine, vestiti comuni ma eleganti, un cappello solo poggiato in testa, visiera girata dietro, iphone sempre in mano. Se è un criminale è almeno di alto rango, ma senza alcuno stile tanto aveva paura che gli portassero via il baule con cui era arrivato e chiedeva che venisse custodito in una stanza al sicuro in sua assenza. Ecco, le sue paranoie, non avrebbero forse dovuto dissuadermi dall’aiutarlo? Perché allora mi son messo a cercagli una stanza per il giorno dopo quando l’ostello sarebbe stato temporaneamente pieno? Perché ho contattato una ragazza conosciuta in quei giorni, li ho fatti incontrare? Forse per tutelarmi trovando un testimone? O per un ludico sadismo tutto consistente nel voler coinvolgere una terza persona, lontana chilometri da me, quasi a me stesso sconosciuta, in una storia all’apparenza innocente come la ricerca di una stanza per una notte, ma potenzialmente devastante. In effetti, ripensando alla mia ultima notte a Madrid è come se tutto quanto mi stesse succedendo fossi io a volerlo e nessun altro, a parte me, si ingegnasse a manipolare eventi e persone per tracciare intrighi, stabilire incontri e temi delle varie conversazioni, far trovare in un determinato punto un determinato giorno ad incontrare una determinata persona.

Voglio aiutare il francese per quanto le paure che lo accompagnano riguardo alle sue cose mi coinvolgono in merito alle mie. Vivo, in questo momento in cui parlo di questi momenti, una sensazione a quella che immagino si vivesse cent’anni fa, a pochi giorni dallo scoppio del primo conflitto mondiale. Son sereno, rilassato, ma è come qualunque cosa succeda intorno a me sia un indizio, un’avvisaglia di pericolo. Son tranquillo, ma teso.

Forse è anche perché, a dire il vero io non sarei neanche dovuto venire in Spagna; da qualche mese preparavo un viaggio nei Balcani, per l’anniversario dell’attentato di Sarajevo, per recuperare alcuni ricordi registrati a Dubrovnik da mio nonno o a dagli ufficiali tedeschi che si trovavano lì insieme a lui negli anni quaranta, per conoscere la Serbia, vittima inferocita, ma all’ultimo momento la mia potenziale compagna di viaggio ha deciso di affrontare da sola l’impresa o, meglio, avrebbe volentieri condiviso le spese in Croazia (più cara e sicura) lasciandomi poi libero di fare l’autostop dalla Bosnia in poi (più economica e pericolosa, nel mio immaginario ed in quello del ministero italiano). Così mi son ritrovato dopo pochi giorni in Spagna. La sua, in fondo, era una proposta che in un attimo avevo già rifiutato. Forse, a giudicare da come sono andate le cose alla fine, ci avrei potuto pensare un po’ su prima di farmi trasportare dal primo impulso.

Che poi le cose non sono neanche andate male come potrebbe sembrare dal mio modo di raccontarle. Quel giorno, ad esempio, vado in giro con D. il francese. Lo aiuto a trovar casa, a comprare una scheda telefonica, ci mettiamo d’accordo per far serata insieme così che possa sdebitarsi. Passeggiando ci troviamo di fronte ad un baretto dove vendono birra a quaranta centesimi. La cortesia francese lo porta ad offrirmene una, per essere in pari con il mio avergli dedicato l’intera giornata. Non puntualizzo, non sto lì a considerare il prezzo dei suoi vestiti, il suo iphone da cui parte un auricolare che non lascia mai il suo orecchio, il suo fare da teppistello bene, la sua spilorceria da mangiabaguette. Accetto, ringrazio, proviamo a parlare del più e del meno, per quanto inventare il francese, crearlo all’istante, dopo alcune ore cominci ad affaticarmi.

Evito ogni forma di tensione o paura, anche quando una paura ne usa un’altra per distrarmi. Accanto a noi due rumeni urlanti bevono, scoprirò poi, da almeno tre ore, offrendo un bicchiere a chiunque si sieda al loro tavolo. La ragazza della Guinea equatoriale che lavora lì esce un attimo e guardando ora loro ora un chitarrista spagnolo che è fermo lì a suonare da ore ed osserva che non è una buona idea vendere birra a quaranta centesimi.

Dopo un attimo (qui una paura avrebbe dovuto distrarmi da quella di cui ho in qualche modo descritto in queste pagine) uno dei due rumeni salta dalla sua sedia a quella del mio amico. Lo avviso di stare attento ai suoi bei occhialini ed al suo iPhone. Rido, lievemente teso, fondamentalmente rilassato della scena di fronte a me, mentre mi disseto con lunghe sorsate di cerveza* fresca. Il tipo alla fine si mostra solo molto ubriaco, “latino”, come noi, giocoso e divertito, dall’alcool e dalla vita, senza nessuna cattiva intenzione, se non quella di portarsi a letto una spagnola a cui aveva offerto poco prima una cana**.

Si parla, si ride, tutta un’umanità benevola mi circonda. Mi scuso con il francese perché parlare con gli spagnoli mi risulta più semplice e quasi lo escludo dalla conversazione. Lui non si lamenta. Gli spagnoli mi invitano a parlare.

C’è una coppia, lei di origini bavaresi ma nata e cresciuta in Estremadura, G., che mi invita dopo un po’ che parliamo ad unirmi a lei ed al marito a Stoccarda, a settembre, per l’Oktoberfest. Parliamo della situazione economica spagnola, lei mi dice che da loro si paga quasi il 90% di tasse ed io da italiano mi sento sollevato. Il marito, dopo la festa della birra in Germania, mentre la sua compagna tornerà in Spagna , lui salirà ad Amburgo a prendere una macchina che poi rivenderà a dei cinesi. “Solo cinesi e russi fanno affari in Spagna. A loro una macchina appena usata, purché europea, va bene comunque” Questo mi ha detto.

Un pomeriggio dalla socialità semplice, risate, scambi di informazioni, inviti che non hanno probabilmente niente della promessa ma comunque in quel momento son piacevoli da ricevere. Dopo un po’ arriva un altro italiano che sta nel mio stesso ostello. Andiamo a mangiare qualcosa poi io e lui andiamo al Reina Sofia mentre il francese torna alla sua vacanza in ostello, tutta Badoo e chat, rimanendo d’accordo che ci saremmo visti la sera.

 

(continua)

Viaggio in Spagna 4 – Carmen

Bottellon Stadio Olimpico

 

Volevo far del bene ed ho fatto un errore. Mi sembra quasi che, in una prospettiva quasi sistemica, il bene tenda a nuocere a chi lo attua, senza necessariamente giovare a chi lo riceve, anzi, anche peggio, a volte è come se le conseguenze sul benefattore dipendano pressoché interamente dalla poca disponibilità del beneficiario ad accettare e rispettare che qualcuno gli si doni. Volevo fornire solo aiuto e mi son trovato ad creato solo dei problemi, eppure..

Non dovrei colpevolizzarmi per i miei sentimenti, per primo da me stesso, eppure..

Tutto è molto più chiaro di come lo espongo, il punto è che non lo espongo per com’è, ma per come lo ricordo, da un punto diverso da quello in cui queste esperienze si sono accumulate. Nei bar si parla una lingua così comune da infastidirmi, non c’è mare qui, più che gotiche le costruzioni sono medievali, la gente ride poco, parla ancora meno, legge, tanto, dagli iphone soprattutto, neanche un giornale aperto, o bambini liberi di fare quel che gli pare. Probabilmente è solo questo, è il mondo intorno, per quanto il mondo sia uguale, che mi modifica le percezioni e mi fa pensare a complotti o strategie finalizzate a chissà cosa.

Un esempio. I negri per strada. Qui Bologna: camminano liberi, ti si avvicinano, ti chiedono un caffè o si mettono a chiacchierare ossessivi come i loro jingle introduttivi, le loro filastrocche e le faccia tristi ricamate in faccia come se l’Africa che si portano dietro non fosse altro che desolazione. Qui Valencia: la prima impressione è che facessero delle corse con dei grossi sacchi in spalla, senza mai perdersi di vista, mentre giocano, correndo, a nascondino. Solo in un secondo tempo avrei capito che erano in realtà in fuga, come gazzelle inseguite da tigri in divisa. Eppure…

Eppure lì, per quanto limitati nelle loro attività, sorridono, delle loro fughe, dei loro giochi, delle loro chiacchere, poggiano di tanto in tanto i loro sacchi per terra, in un attimo li aprono, in un attimo li richiudono e tornano a correre. Qui, con le loro borse in spalla, quasi più stanchi se si mostrano allegri è più per marketing e mestiere che per allegrie spontanee. Probabilmente i negri assorbono meglio le energie che li circondano, in Spagna, come in Italia, come in Francia, come ovunque.

Se loro son sereni, perché io penso di essere assorbito in chissà quale piano più grande di me? Anche Calimero non si muoveva se non per giocare in strada. Io invece no, è come se a me ogni serenità o felicità fosse impedita, da me stesso se non da altri, eppure lì per lì molte delle cose che mi è capitato di vedere mi han fatto sorridere, m’han divertito, ma adesso, a ripensarci, quei momenti fugaci riesco a fatica a recuperarli.

Per lo meno sto avanzando delle ipotesi e questo è già un gran passo avanti: la prima ipotesi è che questa inquietudine dipenda da me, la seconda dal posto in cui mi trovo, la terza che ci sia un complotto generale che mi costringe a vivere e sentire le cose in un certo modo. Procediamo per esclusione.

Io non sono sempre lo stesso (biologicamente, psicologicamente, ecc.); a volte mi capita di sorridere di star bene addirittura, senza che la mia vita quotidiana sia molto diversa quel particolare giorno rispetto agli altri. Quindi, su di me non posso fondare una teoria, né trovare in me una causa o una giustificazione.

Seconda ipotesi: il posto in cui mi trovo in un determinato periodo della mia vita. Anche questa ipotesi ha i suoi limiti. Il primo è simile a quello precedente. Se me ne stessi in un posto in cui non potrei che essere felice sarebbe come essere condannato a starci, a tornare ad una nuova casa di grate e di muri, che accolgono si, ma non liberano. Se libertà e felicità han limiti, allora non sono. Una cosa o è sempre tutto ovunque o non è. Tra l’altro, mi capita anche qui di ricordare quei momenti e di essere ancora felice, di riviverli. Se evado un attimo da questa paranoia del complotto son quasi orgoglioso di quel che sono stato e di quel che sono stato capace di fare, dall’ospitalità ai bulgari alla fuga di ritorno in Italia, al mio farmi guida e traduttore. Mi son sentito quasi motore di quanto accadeva intorno a me, eppure, un retro-pensiero mi picchettava sulla nuca e mi diceva che “no, tu fai così perché devi far così. Ti è sembrato normale trovare dei polacchi a guidare un pullman dalla Spagna all’Italia? E la polizia? Speravi ti bloccasse a Barcellona? Volevi tu che ci fossero i bulgari a quel tavolo dopo aver fatto i biglietti? C’erano quando sei andato in autostazione? Ti sei chiesto come mai li hai trovati al ritorno? E perché c’è stato il furto tra di loro dopo che tu sei andato via?”

Ti auguravi di trovarli per strada, quasi all’alba, mentre rientravi ubriaco, la notte prima? Perché è allora che è cominciato tutto la notte prima. O no? Non resta che l’ipotesi del complotto, la più ovvia e la più difficile.

La sera prima, a cominciare dal tardo pomeriggio, di cose ne son successe tante e tutte, apparentemente, scollegate tra loro.

Fino alle dodici avevo tentato di trovare un posto per dormire a Barcellona, almeno un giorno, o quantomeno un posto dove depositare qualche ora le valigie, non per vedere la città o farmi rapire dai suoi incanti, ma per ragioni che al momento mi riesce difficile ricordare. Avevo speso ore a discutere del concetto di “emergenza” ed “urgenza” con dei tipi che avrebbero potuto semplicemente dirmi che non avevano modo di accogliermi, anziché perder tempo a giudicare la mia scarsa organizzazione del viaggio. Un viaggio organizzato, dopo questa nuova esperienza lo so, è, in fin dei conti, poco più di un breve trasloco.

Dopo aver salutato tutti quelli che avevo incontrato a Madrid, dove mi ero fermato per alcuni giorni, sperando di poter mantenere un qualunque contatto con loro, son salito in metro e ho isto un signore, sulla sessantina che vendeva fazzoletti e chiedeva degli spiccioli per avere un sostentamento durante la crisi. Non mi sembrava nessuno fosse raffreddato, ma molti sudavano e si sentiva. Se l’offerta del vecchio appariva inizialmente bizzarra nella prima prospettiva, nella seconda acquisiva un certo significato. Dico questo per dire che non tutto era strano o irragionevole come quanto fin qui narrato potrebbe far pensare. C’è stato un breve dibattito con un mio amico sull’illogicità ed anti-economicità dell’attività del venditore, ossia, sulla possibilità che non vendendo almeno due o tre pacchetti, ed avendo pagato il biglietto per salire in metro, il suo commercio avrebbe solo aggravato la sua condizione. In pochi secondi, l’apparente sensatezza che aveva rimpiazzato la stoltezza iniziale, veniva, nella mia analisi, nuovamente riportata nell’ambito dell’improbabile se non proprio dell’impossibile. Non c’era niente, fino ad ora che avesse la benché minima stabilità e ragione d’essere. Il mio amico, sceso insieme a lui dopo due fermata, aveva avanzato l’ipotesi che forse il signore sfruttava quelle fermate di metro che avrebbe comunque dovuto fare per rientrare a casa per provare a tirar su qualche centesimo, ma non appena il vecchio aveva abbandonato il mio vagone, subito l’ho rivisto comparire su quello successivo.

Dopo venti minuti sono sul bus.

I bus spagnoli sembrano salotti reali con poltrone in pelle ed offrono una temperatura mite, un senso di tranquillità durante il viaggio e collegamento ad internet. Chiedo se alla prima ed unica sosta posso recuperare il laptop per collegarmi durante la seconda parte del viaggio e l’autista acconsente. Accanto a me c’è una ragazza svizzera, bionda, che è lì da un mese per migliorare il suo spagnolo. Ha un bel seno e quel senso di alienità che hanno le nazioni senza mare, soprattutto quelle dall’indole neutrale. Scambiamo alcune parole, le chiedo se in qualche modo la stia disturbando e mi confessa che “no, non mi disturbi, solo che vorrei dormire un po’”. Provo ad insistere un attimo per incontrarla la sera, ma è distaccata (non capisco come sia possibile essere distaccati con tutto quello che sta succedendo a me e con tutti i tifoni che muovono la Spagna). Fingo di addormentarmi per incoraggiare il suo sonno e verificare se la sua prosperità non sia solo frutto di tecnologie speciali applicate all’abbigliamento intimo femminile o, al contrario, il frutto di un duro regime nazionale a base di precisione, banche e cioccolata. Non è stata una gran distrazione la Svizzera alla fine.

Ci fermiamo. È un autogrill, come molti in Spagna, un po’ spostato (almeno un paio di chilometri) dall’autostrada. Di fronte a me c’è un campo, leggermente ondulato, diviso in differente strisce di colore, dal giallo, al rosso, al verde, alla terra bruna. Recupero il mio laptop e salgo a bordo. Per alcuni minuti ho una connessione velocissima, dopo poche centinaia di metri scompare e torno ad avanzare due ipotesi: la prima, che la connessione che sfruttavo inizialmente fosse quella di un altro autobus che andava verso Salamanca; la seconda che quelli che seguono il mio viaggio e complottano contro di me, non vogliono che io, almeno durante gli spostamenti, comunichi con persone a me familiari via internet. Posso ancora usare il telefono, ma chiamare adesso potrebbe limitare la mia libertà decisionale nei momenti in cui ne avrò realmente bisogno.

Non so quanto gli spagnoli, polizia esclusa, facciano parte di questo complotto, perché il fatto che io sia stato lì e che ora mi trovi qui, come ho provato a dimostrare, può spiegarsi solo con questa ipotesi. Mi concedo di dedicare a questa gente alcune parole.

Flemma è una parola che è entrata nel dizionario italiano intorno al ‘600 per indicare lo stile di vita della gente di quella nazione, per le loro sieste (che trovo geniali per regolare, almeno nei paesi caldi, il ritmo lavorativo), per il loro modo di rapportarsi alle cose, per la loro disponibilità verso tutto e tutti. Parlo da turista perseguitato da un complotto, vorrei ricordarlo, eppure, l’impressione di aver esperito un ritmo di vita umano mi sta addosso come l’afa di Bologna in questi pochi giorni di transito.

“Sai perché ci sono meno incidenti in Germania che in Spagna?” mi han chiesto per poi rispondermi un attimo dopo: “Perché in Germania non hai un limite di velocità e all’occorrenza i tuoi riflessi son pronti a reagire, qui da noi, invece, abituati come siamo ad andar piano, alla prima frenata c’è un tamponamento”. Con questa premessa non me la son sentita di mettere in pericolo la mia vita e quella degli altri passeggeri, e per rispetto di quelle persone che sicuramente non erano a conoscenza di quanto si ordisse ai miei danni, ho evitato di dire all’autista di accendere il router. Credo la Spagna abbia apprezzato. Pochi chilometri dopo le lande colorate, quasi olandesi che non han bisogno di fiori, delle rupi con una voce quasi abruzzese e dei colori quasi dolomitici si sono imposti allo sguardo, rudi ed elegantissimi, per poi concedere all’occhio l’occhio della Cuenca, poco prima di tornare a Valencia. A tutto questo c’è da aggiungere che in terra iberica, anche a starsene lontani miglia, ovunque intuisci il mare.

Arrivo a Valencia. Anche qui un aeroporto, ma, a differenza di quello, questo, appena un chilometro fuori città, non ti invita ad andartene, ma ti accoglie quasi.

Ecco, in questo momento, così vivo da pensare ancora sia quel momento, tanto ha significato Valencia, son sereno. Non vedo complotti, ma un autobus pieno di migranti, spagnoli, turisti, me, che si spostano, ciascuno per il proprio destino con sono un mezzo in comune. Sono un po’ nervoso, si, perché da ore scrivo alla mia amica per avvisarla del mio arrivo e non ricevo risposta. Una volta lì l’aspetto disteso per una mezzora su una panchina perso tra il cielo e alcuni pensieri, diversi da quelli di cui qui parlo, ma di cui quasi non mi importa o che quasi non ricordo o che, ancor meno di quelli sul complotto, capisco.

Alla fine suono a casa sua, entro. Che sia anche lei parte del complotto? Mi spiega di non aver ricevuto alcun messaggio, mi dice di avermi scritto ed io tampoco* ho avuto da lei alcuna informazione. Lei è di corsa. Cinema all’aperto. Tre euro e cinquanta. Penso sia un po’ caro per stare all’aperto e rinuncio e poi forse son stanco. Dovrei mangiare qualcosa. Lei esce. Io aspetto. Sereno. Poi comincio a fare il turista, a scoprire la città da solo, come ho sempre fatto.

C’è un posto che conosco, probabilmente gestito da italiani che spero sia aperto ed, invece devo cercare oltre. Mi ritrovo in un bar, chiedo se la cucina è aperta ed ordino una tostata* e delle patatas bravas con chorrizo**. Son lì da solo che bevo e fumo. Comincio a mangiare e le tre ragazze sedute al tavolo con un ragazzo, che poi scoprirò essere gay, mi guardano. Sembra tutto vada per il meglio. Io faccio il vago, penso a nutrirmi, non voglio disturbare e spero che questo mi atteggiamento non sembri quello di uno che non vuol essere disturbato.

Dopo un po’ una delle tre, violenta nella sua sensuale bellezza da ballerina di flamenco, mi si avvicina e mi chiede cosa stia mangiando, spiegando che con loro il servizio non è stato eccezionale, che han dovuto cucinar da se la loro comida***.

Mi invitano al loro tavolo. Una di loro mi fissa tutto il tempo. Ridiamo del fatto che io parli francese e che per farlo mi basta “pensare in italiano, poi pensare di essere stupido e parlare francese”. La danzatrice dice che userà la stessa frase per gli inglesi. Racconto di me, del mio progetto sulle lingue, dei miei viaggi, delle lingue che parlo, mi parlan di loro, confrontiamo Italia e Spagna. Dopo un po’ ridiamo del bar che ad ogni minuto peggiora nel servizio. Lascio a tutti loro delle informazioni, il mio nome e col pezzo che avanza riservo un tavolo a Juan Carlos. Cerchiamo un altro bar, andiamo a ballare. Ci provo con quella che mi guarda fisso, le lascio i miei contatti, mi dice che ha un ragazzo e chiedo se allora ci si può rivedere tutti insieme l’indomani.

Come vedete son stato anche bene. Ci son stati momenti in cui al complotto davvero non ci pensavo. Quelli in cui il complotto si è evoluto, articolato, ha assunto dinamiche e dimensioni fuori dalla mia portata.

La discoteca dove ci troviamo offre due attrazioni fondamentali: un gruppo di bellissime finlandesi che ballano ed un tipo, capelli bianchi, leggermente in sovrappeso per la sua pancia gonfia di birra e mojito, che ci prova, in maniera goffa e volgare, offensiva per le vittime, divertente per chiunque altro si trovi a passare.

Le finlandesi son probabilmente lì in gita da un paese vicino con residenti esclusivamente provenienti dalla loro nazione e con un sindaco finlandese. Una piccola colonia non ufficiale all’altro capo dell’Europa a cui, a suo tempo Zapatero ha espresso il tributo di un benvenuto. Escludo che in questa storia che racconto c’entri la mafia finlandese. Escludo che esista una mafia finlandese.

Comunque, alla fine gli spagnoli van via, non so se offesi dalla mia avance ad una di loro o dal mio essermi messi a parlare con degli italiani o solo perché, come m’han detto l’indomani dovevano andare a lavorare. Vacillo tra la seconda ipotesi (forse anche loro son coinvolti, forse non vogliono che parli con qualcuno che è escluso da questo piano) e la terza. Mi fido. Resto lì, guardo ancora un po’ le sirene scandinave, odoranti di Russia ed esco. Do un’occhiata ad un altro paio di locali poi mi fermo su una panchina rotonda e tutt’intorno a me sento solo degli italiani. Toscani, emiliani, abruzzesi. Una tipa, rumena probabilmente, a cui chiedo se ci siano altri locali ad ingresso libero in giro mi dice che non devo aspettarmi granché se non voglio pagare. Così mi fermo lì vedo cosa succede in giro. In un attimo ricomincia la messa in scena, il piano, il circo delle azioni messe lì per distrarmi. Anche degli italiani non ci si può fidare o forse si dovrebbe trarre esperienza da quello che da lì a poco succederà ad uno di loro.

Sembran tutti tranquilli; piccoli bottellon illegali, dei bengalesi, come a Bologna a dare in giro birra in barattolo, ma nessuna minaccia. Valencia è abilissima a dissimulare il pericolo. In un momento un negro ne aggredisce un altro. In meno di un momento la polizia li blocca entrambi, soprattutto quello aggredito. La tensione non sale. Polizia e africani si scambiano delle domande, i neri mostrano i documenti. Tutto si risolve con una multa o poco più.

Un tipo italiano, particolarmente ubriaco, gioca a fare il saluto romano ogni volta che passano dei tassisti. I tassisti, questi muli che trasportano turisti e sconosciuti in giro, ci mettono un attimo a diventar capre. Noi si ride, si fuma. Un amico dell’italiano ubriaco chiede del fumo ai venditori di birra. Provo a dirgli che è offensivo per loro sentirsi rivolgere una simile domanda. Lui non fa caso alle mie parole e continua. Anche se fossi in pericolo, gli italiani sarebbero gli ultimi su cui potrei contare. Intanto quello più ubriaco, che nel frattempo ho scoperto essere figlio di un regista di commediole all’italiana a strusciarsi con una che chiaramente sotto i 50 un sentimento protorumeno non lo avrebbe dimostrato mai, provando a convincerla a farsela dare gratis, accettando in fine di trattare sui 40. Nel frattempo dei nerboruti amici della signorina, seduti placidi accanto, gli hanno sfilato l’iphone.

“Sarebbe un ottimo soggetto per un film di tuo padre, no?”

Loro continuano a provarci con delle ragazze emiliane. Io vado via. A ripensarci ora, questo giorno è un continuo andar via. Per strada, vicino alla porta de Dos Serranos, un tipo africano mi chiede se io parli inglese e francese. Gli rispondo di si. Mi chiede di spiegare a due bulgari (e qui il cerchio si chiude) che lui può affittare una casa con tre stanze a quattrocento euro; glielo spiego, ma l’africano è convinto che non traduca bene fino a quando non gli dico che i ragazzi non vogliono spendere più di 160 euro per un mese.

Son cose che succedono, no? Perché ci continuo a pensare? È la vita.

 

 

Viaggio in Spagna 3 – Bulgari in casa (double trouble)

intro

 

 

A svegliarmi è l’angoscia, senza scuotermi, quasi appoggiandosi lievemente sul bordo del mio giaciglio, sorridendo materna in attesa che i miei occhi si aprano, paziente e silenziosa, con in faccia un pallore tenue da tendine che la rischiara, imbellettandole un viso ora grigio ora cadaverico, delle prime luci del mattino. C’è tanta tranquillità nella sua persona, nessuna ansia, niente che la disturbi o che la aiuti a disturbare. Mi entra lentamente nel naso come un odore di pane tostato e di mimosa mentre respira.

L’angoscia è l’assenza di felicità, l’unica compagnia possibile in una stanza altrimenti vuota. La tristezza, il dolore, la disperazione, a loro modo, sono ancora felicità, un intuirla, uno sperarci, un crederci, ma l’angoscia, quella che mi fa scrivere in questo modo, che mi fa andare in cucina a preparare il caffè per poter fumare la prima sigaretta della giornata, che ti fa stare in casa, che si serve di te per esprimere la propria aggressività, che mi fa scrivere di cose passate che non sono più e quindi forse mai sono state, è semplicemente un’assenza tale, che la tristezza sarebbe già un appiglio.

Di angosce ce ne son tante, quasi tutte con volto di donna. Vecchie, logore, insoddisfatte e giovani, invisibili, esperte, professionali. Mentre scrivo con me ce ne sono almeno tre, quella che scrive, quella che pensa e ricorda e quella del momento ricordato, la prima di miele, la seconda di cera, la terza di cristallo e limone.

Quella che scrive la vedete, la seconda, invece, è confusa e confonde con i miei discorsi anche me che vorrei trovare un ordine, una sequenza, un’armonia in quanto ricordo. Quello che penso e quello che ricordo diventano una strana unità che si modifica reciprocamente, senza possibilità di scindere idee e memorie.

Penso all’autobus polacco dirottato, alla polizia spagnola, a Barcellona, ai miei anni in Polonia, ricordo i dettagli, gli errori, le giustificazioni mentre provo a separare gli elementi e a tenerli tutti insieme. L’angoscia è nel pensare che ci sia un piano, un destino, un caos che in qualche modo possa essere regolato, chiarito, spiegato perché non si ripeta e che tutto torni sereno e piano. Se ne sta lì lei, serena, seduta sul letto, con i miei occhi che più la riconoscono più la temono e più la temono più vi si arrendono. È la sua quiete che quasi mi fa urlare, la coscienza che qualunque cosa io possa fare o dire, lei non cambierà d’atteggiamento o d’espressione. Mi incoraggia anche per un po’, consolandomi nel convincermi che forse, in qualche modo, anch’io possa aver ragione. Sembra dirmi: “Ma si, sicuramente devi solo pensarci un po’ su, ci deve essere una spiegazione a tutto questo, devi solo star calmo se vuoi che tutto sia più chiaro, prova ad collegare questo elemento a quest’altro, che ne so? La fuga dalla Polonia alla polizia spagnola, o i tipi che fumavano in corriera con il tuo rientro in Italia. Semplice no?”. Così mi parla, e più mi parla più mi inquieta e più mi inquieta più, stancandomi, mi calma.

Alla fine vince, senza che ci si senta in torto ma senza neanche il desiderio di aver ragione e così accetti che sia sempre tutto un caso, che non c’è da cercarci un piano dietro o della cattiveria o della bontà altrimenti si rischia, anche a non essere angosciati, di sprecare la vita dietro idee e pensieri inutili, poco pratici.

Inoltre ci sono angosce, come quella di cristallo e limone, che quasi divertono, che alleggeriscono gli addii, che distraggono da qualcosa che potrebbe anche essere peggio. Ma si, son solo cose su cui favoleggio io; non ho fatto del male a nessuno, è tutto solo un gran caos, non c’è chi abbia tempo da perdere su cose del genere se non me, che è anche giusto che cominci ad abbandonare simili fantasie.

La terza angoscia, tra l’altro, quella che da un lato potrebbe aver determinato questi miei pensieri era si tale già all’origine, ma le bevute per attenuare la mestizia della partenza, nel primo pomeriggio dell’ultimo giorno a Valencia, tutta l’allegria e la gioia che avevo accumulato nei giorni precedenti, la sensazione d’Africa e mare ad ogni passo, il voler rendere a chicchessia quello che avevo ricevuto da infiniti chiunque quasi sconosciuti, mi avevano in qualche modo reso affascinante e divertente una storia che di per se aveva tutti i numeri per non esserlo affatto.

Immaginatemi felice, puro sole, che mi avvio lentamente, dopo un primo accenno di fretta al risveglio, verso la stazione degli autobus a Valencia, sperando ad ogni passo, di far tardi per acquistare l’ultimo biglietto disponibile, contento di questa illusione e preoccupato dalle possibili conseguenze della stessa, ossia l’impossibilità, quantomeno temporanea, di abbandonare la Spagna. Ora immaginatemi venti minuti dopo con un biglietto in tasca, triste della mia prossima partenza e felice di tutto quanto nel frattempo ho vissuto, del sorriso che non smetteva di sorridere, delle bevute e delle persone incontrate, di un incanto di secoli per le strade vecchio di millenni, libero, tra felicità e dispiacere. Pronto a far saltare tutto, a buttar via il biglietto, a rischiare. Un biglietto in tasca è una possibilità, uno tirato in strada sono almeno due.

Non c’è stato un momento a Valencia in cui abbia percepito la possibilità del benché minimo pericolo, se non quello di una noia da una felicità senza fine. Lì la gente ti parla, saluta, è disponibile, allegra, ti accoglie ed invita, che siano di Valencia o solo turisti di passaggio per le vacanze estive. Corre, ovunque, sonnacchiosa, con ritmi ed orari che trovi solo qui, o che almeno solo qui mi è riuscito di trovare, persone che passeggiano alle quattro del mattino, o alle sei del pomeriggio vanno a lavorare o ancora sedute fuori sulle terrazze a mezzogiorno a far colazione, come quei due sulla mia strada, mentre rientro dall’amica con cui trascorrerò le ultime ore, che mi salutano…ricambio il saluto, proseguo, poi, come per provare a riconoscerli mi volto indietro e torno sui miei passi.

Erano due bulgari, B. e N., che avevo incontrato la notte precedente. Ho ancora del tempo ed allora mi metto a sedere con loro. Prendo un caffè giusto per una pausa tra le mille birre bevute.

N. è un ragazzo sui ventiquattro anni, capelli nati dal gel, biondo, una camicia aperta su un petto glabro ed un grande crocefisso di ferro e di rame. Sorride spesso, di un sorriso tonto più che divertito e compiaciuto. Solo lui dei due parla inglese, neanche tanto bene. Mi racconta che è in Spagna col suo amico a cercar lavoro, che di lì a poche ore lui andrà a Barcellona, mentre l’altro N. si fermerà a Valencia e cercherà qualcosa lì.

N. ha lineamenti più slavi rispetto a B. che sembra quasi tedesco. N. ha tatuaggi su quasi tutto il corpo, immagini sacre, tribali, animali vari; ha i capelli corti, lo sguardo forte, un pizzetto delineato. Sembra irritarsi ad ogni parola ed ha bisogno di B. per poter comunicare con me non parlando nessuna lingua, tranne la sua.

B, sta al telefono, cercando probabilmente di soldi o un aiuto per prendere l’autobus. Suggerisco a N. di provare a chiedere al supermercato russo che è lì a pochi metri per vedere se possono aiutarlo col lavoro visto che non poter comunicare con nessuno potrebbe essere un problema.

 

supermercato

B. mi dice che cercano casa ed allora, per pura generosità, per aiutare sia loro che una mia amica che affitta delle stanze ci scambiamo i numeri dicendogli di non promettergli niente, ma di poter provare e che verso le cinque mi sarei fatto sentire.

Ne parlo con la mia amica. Le informazioni che le do son quelle di cui dispongo anch’io, ma mentre gliele elenco mi chiedo, ad ogni punto se sia una buona idea parlargliene: solo uno dei due parla inglese, cercano lavoro, si fermano per certo una settimana poi forse un mese, li ho conosciuti ubriachi da ubriaco per strada la notte precedente, abbigliamento, modo di fare. Lei valuta tutto, anche il mese d’affitto che eventualmente riuscirebbe ad incassare. Mi dice che per lei va bene, che posso chiamarli. Ci vogliono un’ora e non so quanti messaggi per spiegargli come raggiungere casa.

Mentre gli aspettiamo, nascondendoci reciprocamente delle preoccupazioni minimali, beviamo un po’, ascoltiamo della musica, parliamo di noi parlando delle canzoni, ridiamo di quanto sarà difficile spiegargli che non devono chiudere la porta per non bloccare chi è dentro e di come aprirla al momento di entrare. Arrivano che son giù ad aspettare da venti minuti e sono io a dovergli urlare per dirgli di salire.

 

foto1

Io me ne sto in disparte, sempre attento ad ascoltare che non succeda niente di male a lei (ed in un secondo tempo a me). Ho un timore sottile che trascuro parlando su internet con degli amici; il cane che è in casa, Calimero, è sempre steso su due cuscini gettati a terra, quasi in attesa che gli mettano la ciotola sotto il muso per mangiare, immobile, salvo alcuni movimenti della testa o piccoli spostamenti, come un bambino sereno che cerchi la posizione migliore per dormire. Fosse in strada digrignerebbe i denti, correrebbe, ma in casa è solo un monumento dal pelo curato e nero alla pigrizia ed alla noia.

Vado a prendere le mie cose dalla stanza dove o dormito fino alla notte prima e le sposto per liberare i letti ai ragazzi, aiuto la mia amica a chiarire le ultime cose. Arrivati al pagamento B. tira fuori una banconota da cento euro. La preoccupazione bussa alle porte dell’angoscia per vedere se in casa, l’angoscia la lascia entrare. La mia amica chiede che li vadano a cambiare perché non ha resto.

Loro si allontanano e per alcuni minuti io e lei non parliamo, poi entrambi attacchiamo direttamente a riconsiderare i nostri dubbi, soprattutto in funzione del denaro. Ed anche qui qualcosa non torna.

I due, per quanto provenienti da un paese che nell’immaginario italiano è solo povertà e aggressioni, si son dimostrati soprattutto goffi, molto educati, quasi timorosi a chiedere quanto gli spettasse come ospiti paganti, stupidi in un certo modo, cortesi nel salutar sempre, nel dire “per favore”, concedendo la precedenza ad andare in bagno o interrogandosi per sapere se non stiano disturbando troppo. Averli in casa non preoccupa, è uscire che fa nascere sospetti e piccole paure. Son vestiti così bene che con quello che spendono loro a comprare dei jeans ed una camicia io ci riempirei tre valigie, hanno iphone modernissimi, B. soprattutto ha la pelle curatissima, un portafoglio con banconote di grosso taglio (che cambieranno al supermercato sotto casa comprando un Gatorade) e poi escono in continuazione. Non hanno neanche poggiato le valigie che sono usciti per cambiare i soldi. E fin qui va bene. Poi sono usciti, una volta ricevute le chiavi per una ventina di minuti e son rientrati. Una terza volta, per comprare una scheda telefonica spagnola da un negozio all’angolo son stati via quasi due ore. Il pericolo è meglio averlo in casa, sotto controllo, male che vada attacca ed esplode, ma quando è fuori dalle mura, è lì che non si riesce a star tranquilli a non sapere cosa fa, chi incontra, quali sono i suoi movimenti e le sue intenzioni. L’angoscia, al contrario della paura, ha di quei trucchi che rendono più pericolose le situazioni più lontane.

Dopo qualche ora arriva anche il coinquilino della mia amica. In tre saremo più tranquilli e ci illuderemo di essere più sicuri. In fondo non avevano la faccia da criminali. Dediti a qualche piccolo reato, forse, spaccio di marijuana, borseggio, piccoli furti, ma in casa c’è ben poco da rubare. La povertà, a suo modo, è la prima forma di sicurezza.

I bulgari, intanto, rientrano, fanno la doccia, si lavano nel profumo, cambiano i vestiti e…restano in casa. Mi sento un po’ responsabile per questa situazione, ma alla mia amica ho detto tu, è stata lei alla fine a prendere una decisione, io potevo semplicemente dire ai due che non c’era posto in casa, ma lei mi ha detto di chiamarli e di farli venire. Ma è la poca sobrietà a farmi sentire l’angoscia, la gente è buona, non han fatto altro, tutti, che volermi bene da quando sono arrivato. Non succederà niente. Si, forse sono un po’ rozzi nella loro eleganza da mostrare, ma son brave persone. Chiedo a lei ed al suo coinquilino se vogliono uscire e mi rispondono di no.

Io faccio la doccia, esco, vado a comprare delle cartoline, un altro paio di birre e delle foto al soffitto di un bar dove son stato una delle prime sere. Faccio un po’ il turista.

b

a

Torno a casa dopo un paio d’ore. Chiudo la valigia, dormo un po’, fino alle 8. Nella notte non è successo niente mi racconta la mia amica mentre beviamo un caffè assieme prima di accompagnarmi all’autostazione.

Tanta angoscia inutile alla fine. Non ci son complotti, cattiverie, congiure contro di me, di alcun tipo. È solo un malessere personale che probabilmente mi porta ad immaginare troppo, a temere cose che non esistono, a rovinarmi una vita che tutto sommato potrebbe esser felice.

Ma si, posso dormir sereno, il mondo è in pace…

A svegliarmi non è questa volta l’angoscia, ma un messaggio della mia amica dove scrive: “B. ha detto che lascia la casa perché N. gli ha rubato tutti i soldi e non sa dove andarlo a cercare. Ha detto che usciva. Ma dove andrà a bere e mangiare senza soldi? Dove andrà a dormire? Strani no?”