Fa un caldo insopportabile. Soprattutto la sera. Proprio non si respira in notti come quella appena trascorsa a Bologna e poi c’è tanta di quell’umidità che sudo talmente tanto che i topi che sto coltivando in gabbia han messo su i braccioli. Non voglio farci degli esperimenti su questi aspiranti criceti, solo tenerli in gabbia. Non credo ci siano animalisti interessati al prodotto che mi contesterebbero il sano gesto. È puro sadismo, non è scienza, è pura rivalsa sulla natura nei suoi punti più deboli.
Ma loro lo intuiscono, lo sanno che per me loro son solo dei topi o poco altro. Squittiscono tanto che non può essere amore, è sicuramente rabbia ed io la sento come sento che oramai è la mia pelle ad assorbire il sudore dal lenzuolo e non viceversa. Dormo un po’, un paio d’ore, mi sveglio prima dell’alba e appena arriva le chiedo se le serve qualcosa. “Niente” dice lei. Sembra una giornata che tutto sommato non potrà andar poi così male. Oddio, devo fare un giro in alcuni uffici dall’altra parte della città per dei chiarimenti e delle verifiche per il pagamento della TASI e della TARI.
Ci vado. Su una pendenza di marmo bianco l’acqua allegra rinfresca con lo sguardo di una luce che brilla e di una melodia che trilla l’udito. Bello il comune. Tutto vetri, centinaia d’occhi aperti sulla città e dentro ad accoglierti un’installazione con su scritto “Love difference”. Poliziotti seduti dietro dei vetri alla reception, di quelli che ti trovi di fronte quando ti vengono a trovare i conoscenti nelle carceri; sorridono, gentili mi offrono tutte le informazioni che richiedo, mi chiedono addirittura se ho altro da chiedere. E siamo solo negli scantinati del comune.
Un comune senza piano terra. Il piano terra è giardino, non ha senso andarci. Si passa dal meno uno al più uno. Niente, in tutti i sensi, in mezzo. Chissà cosa dev’essere il secondo piano, quello dove si parla solo di TASI trecentosessantacinque giorni l’anno.
Entro. A destra un banchetto. Due signore sui cinquant’anni, incisivi sporgenti, bisbigiano qualcosa l’una all’altra; non capisco cosa ma mi sembra di riconoscere il suono. Arriva lei a chiarire. Una faccia aerodinamica nella forma che la bici di Gee Atherton al confronto è un calesse, una pelle che definirei marrone senza specificare che tipo di marrone, capelli tirati indietro, corti, quasi a punta, ciascuno di loro nelle estremità, si muove con passi brevi e rapidi, i piedi quasi si rubano lo spazio a vicenda, due laccetti della blusa bianca che le scendono dietro, neri, fino al ginocchio che si muovono illogicamente di moto proprio. Bassa, tanto bassa.
Ho il 53, il tabellone elettronico segna il 18. Ne approfitto per leggere Stendhal e le sue mille opinioni sulle donne, gli uomini e l’amore. Due vecchi accanto a me ad ogni frase si lamentano delle tasse e a quella successiva elogiano il governo, si ricordano vicini di casa e si dimenticano delle loro serate insieme.
“30, 31, 32. Venite. Sedetevi qui. 30…sportello 6…31 sportello 4…32….no lei aspetti”. Non urla, squittisce forte, topo in tutto, in niente topa. “Lei dove va?” “faccio due passi in corridoio, ho il 72” si azzarda a rispondere una simpatica vecchietta umile e sorridente. “Lei sta qui! Questo non è un parco giochi” impone la regina delle pantegane. “Non è un parco giochi” penso tra me “è il comune, se non son libero di muovermi in comune…”. Ma non dico niente. Qui comandano loro. I topi. Stipendiati per leggere i numeri sul display, per mettere a sedere i cittadini secondo un arbitrio e delle ragioni comprensibili solo a loro. I topi son pagati per far questo. Qui il potere son loro. Noi siam lì a far da cavie, ma non per un qualche esperimento, come da me in casa, per puro sadismo.
Cosa le cambia se cammino? Cosa le cambia se son seduto qui o lì? Cosa le cambia se chiedo delle informazioni al banco delle informazioni all’ingresso? Perché non posso parlare con nessuno. Io ho dei diritti, io pago le tasse, io sono un uomo.
Ma non dico niente. Non mi sembra il caso.
“40…venga a sedere qui. Che giornataccia! Son stanchissima oggi”. Lavorare stanca.
Intanto son passate due ore. Non fa in tempo a dire 53 che già sono nell’ufficio indicato dal tabellone elettronico a chiedere se ci siano delle correzioni da fare nel conteggio della mia TASI.
“No, va bene così! risponde” docile ed autoritario
“Come va bene così? Tutti mi dicono di conteggi sbagliati e forfettari, possibile che solo il mio sia corretto?”
“Si, il suo è corretto!” ghigna quasi
“Ma a mia sorella…e a mia nonna e a mia madre…tutti sbagliati…solo il mio corretto? Ci deve essere un errore!” Protesto! Non è possibile che ci sia gente pagata per chiamare i numeri del display come in una sala bingo, a maltrattare i cittadini liberi che di loro sponte si consegnano all’ufficio TASI e poi lì ci trovino un impiegato che non riscontra nemmeno un errore. “Son due ore che son qui. Non è ammissibile che non ci sia neanche un errore di 20 centesimi. Io mi rifiuto di crederlo”.
Mi ride in faccia.
“Ma almeno per la TARI. Almeno la TARI sarà sbagliata. Guardi che io ho dei topi in casa, di spazzatura ne produco davvero tanta. Sarei felicissimo di pagare di più ma non è accettabile che sia tutto in ordine. Non chiedo, come vede, pischelletto, che corregga per difetto, basta che corregga in qualche modo.”
“Qui noi ci occupiamo solo della TASI. Per la TARI deve scendere al primo piano”
“Va bene. Spero di avere una sorte migliore almeno lì. La ringrazio. Vado subito.”
“Oggi non è aperto. È aperto solo domani”
“Mi sembra giusto: una a chiamar numeri, un kapò in sala d’attesa, un pischello incompetente. Mi arrivano due tasse lo stesso giorno, ma avere due uffici aperti lo stesso giorno, sarebbe stato chiedere troppo. La ringrazio pischello”.
Non ci sono neanche porte da sbattere. Esco. Vado a prendere una bottiglietta d’acqua al bar sotto al comune, fuma una sigaretta in 2 boccate. E poi sorrido, passando in un attimo dalla rabbia al più divertito dei sorrisi.
I topi. Son stati i topi. Han congiurato loro. Tutto quello squittire è perché sapevano. Volevano che capissi come ci si sente a stare in una gabbia per puro sadismo, a fare il mio o a non farlo, ma compiacendo comunque il sadismo dell’uomo. Ma pago le tasse io. Io rispetto i miei pari. Ed io non son pari ad un topo. Oppure si? Facciamo che ci somigliamo io e i topi e va bene. L’han voluto loro. Appena torno a casa, giusto il tempo di tornare a casa. Gli fa così schifo essere schiavi? Se la son cercata la libertà, che se la tengano. Vediamo cosa san fare in piena libertà sti sorci. Sono un essere umano io. Sono un cittadino libero. Pago le tasse io.