Viaggio in Spagna – Gli autisti polacchi

eurolines

 

 

Tra poco sarà tutto finito, ed è giusto cominciar da qui, perchè è da qui che tutto è cominciato. Ogni fine è un vecchio inizio dice un adagio russo che chiude una sinfonia in un modo in cui non si è mai chiusa. È la fine che da e toglie senso alle cose, a quanto è stato e a quanto sarà e così torna un comune senso d’Italia mentre diminuiscono avvicinandosi a Tolone i chilometri e gli euro necessari e da pagare e tornano con me che torno i soliti pregiudizi e le opinioni e fatti complici a testimoniare.

Vado dove non voglio tornare, torno dove non vorrei restare, sono uno che mette radici prima di mettersi in viaggio, ho per casa lo spostamento e l’allontanamento da una casa che è un nido di urla e relazioni forzate, una casa che si chiama casa e non lo è, pareti ai lati della testa, sbarre sugli occhi, orecchie piene di grilli che cantano e voci comuni, assenza di mondo.

A riportarmi in Italia è la Polonia, con un autobus che accoglie come i carri bestiame d’un tempo ogni tipo di razza e religione e cultura. Le mie idee da nuove che erano qualche centinaio di chilometri prima tornano quelle consuete, senza che si possa distinguere cosa del mondo sia una mia idea e quale di queste sia un riflesso perfetto del mondo.

La sospensione del giudizio è l’inizio della felicità, la felicità è non cercarla. Così mi riesce solo di dire quanto ho visto, senza farne un romanzo, senza pensare, anche se forse dovrei, che dietro tutto questo, in fondo, forse c’è qualcosa di nascosto, di non detto, da intuire che fa immaginare che forse potrebbe essere tutto meglio o peggio di com’è.

La Disco Polo polacca è come la voce ed i filmati nei libri di Orwell. In fuga, anni fa dalla Polonia, mi ritrovo, anni dopo, ripreso, quasi catturato da due autisti polacchi. Son fattori che dovrei analizzare, ma non ho tempo, manca poco a tutto, al solito niente che mi limiterà sicuramente nella scrittura. È come se venissi punito per aver provato, passando di là, più o meno per caso, a rivedere una persona e rientrare, che si chiami Polonia o Italia poco importa, è come essere costretto a stare dove non la rivedrò più, per quanto neanche mi importi di rivederla. Le cose son cambiate cambiandomi, dopo anni che tutto era uguale come me.

Ero uscito un attimo per ritrovarmi e per allontanarmi da me, quasi evadendo e giusto il tempo che quegli uomini lì si rimettessero sulle mie tracce ed eccomi scortato al solito posto ed al solito umore. La libertà è perdersi ed io invece provavo a controllare tutto, a sapere dov’ero e cosa facevo, distribuivo qua e là indizi di intenzioni, impronte di atti, mostravo come una volontà. Non so se dal primo minuto della mia passeggiata in poi loro si fossero subito accorti della mia fuga, né quanto tempo ci abbiano messo per collegare spostamenti ed informazioni che mi cadevano dalle tasche, ma adesso mi sembra di essere stato trovato. A suo modo anche essere trovati è perdersi, ma questa è una libertà d’un altro tipo. Trovarsi in due, lasciarsi in due, ritrovarsi in due, per un po’ questa è stata vita e libertà insieme.

Meglio vivere, nel modo apparentemente più naturale e sincero possibile, per non dar nell’occhio per scomparire, per far sembrare tutto regolare come han fatto loro con me.

Non ho individuato subito l’origine dei due, me l’han rivelata loro, non rivolgendosi direttamente a me, ma parlando con altri, ascoltando la radio, urlando. Hanno anche finto di non volermi a bordo, di avere intenzione non più di incarcerarmi, ma di esiliarmi. Mi han distratto maltrattando altri, i nuovi, quelli che ancora non sapevano a cosa sarebbero andati incontro.

In carcere, come in viaggio, ci son momenti che son solo mangiare, fumare sigarette e dormire. Pensavo di aver tenuto gli occhi aperti mentre mi avvicinavo al confine precedente, ma è come se avessi sognato campi d’ulivo che diventavano pini, le pianure montagne, le spiagge attracchi per lo sbarco di aridi deserti; la varietà, invece di insegnarmi qualcosa, era lì a nascondermi la verità, a confondermi e distrarmi.

I due ridevano ed urlavano e davano ordini ed offendevano. Essere uno di loro, uno che parlava la loro lingua, non proprio bianco ma neanche completamente nero, credo mi abbia aiutato ad essere trattato in maniera più riguardosa, ad ispirargli fiducia, a lasciarmi andare dove mi era consentito andare.

Ho scoperto in loro, non solo un rigore ed una dedizione che mi erano noti, ma anche una capacità immaginativa e d’improvvisazione che mai mi sarei sognato di attribuirgli. Aspettavano o sceglievano senza che fossero previste le soste per mettere in atto le loro piccole rappresaglie, il loro insegnamento delle norme.

A cavallo della prima delle due frontiere uno di quelli stipati a bordo ha deciso di accendere una sigaretta. Gli hanno consentito di fare alcuni tiri poi gli han gridato contro:

“Ma sei stupido? Cosa fai?” e poi, ruotando il polso ruotandogli la testa gli han puntato lo sguardo su un vetro “lo vedi quel segnale? Non si fuma qui. A La Jonquera scendi”.

Per mascherare, non solo col loro inglese stentato, ma anche con i fatti i loro piani hanno improvvisato una sosta. È nei momenti di stasi che bisogna chiedersi cosa stia realmente succedendo. Siamo scesi, io sorridevo come chi da certe esperienze c’è già passato ma insieme affascinato dall’esperienza che la stessa cosa, in modi più o meno simili stesse succedendo a qualcun altro. Non capivo ancora cosa stesse realmente succedendo, non avevo coscienza che quella sosta, coinvolgeva o avrebbe coinvolto anche me.

Vado in bagno e lì una nuova distrazione. Alcuni cartelli scritti in spagnolo, francese, inglese ed italiano, con degli errori sulla mia lingua e delle correzioni col pennarello. Una donna delle pulizie a chiacchierare con un uomo che aveva appena usato i servizi ed io che mi arruolo nella rappresentazione della scena, segnalando gli errori in italiano, l’ignoranza divertita della signora che intanto si spostava da un lavandino all’altro rallentandomi in qualche modo nel mio volermi sciacquare la faccia e lavare le mani.

Torno verso il bus e vedo un altro ragazzo, anche lui a bordo del mio stesso autobus come quello che sarebbe stato appiedato, che si mette a correre, zaino in spalla, verso un guardrail e, dopo aver chiesto delle informazioni ed essersi fatto indicare una via tra i monti, si muove, scegliendo il momento adatto per attraversare, quasi fuggendo o cercando la polizia o un passaggio.

Ripartiamo ed io comincio a riflettere. I monti rannicchiati si distendono nella prima serata concedendosi un sonno di pianura. I movimenti delle linee della terra, come un bending di ritorno su una corda di chitarra, sembrano insinuare una melodia di nenia. Gli occhi mi si chiudono quasi, ma prima d’addormentarmi chiedo ad uno dei due autisti polacchi, che passa nel corridoio per contare i passeggeri: “Skad jestecie?”*. Non risponde alla domanda, ma chiede a sua volta, tra il sorpreso e l’infastidito: “Czy ty mowisz po polsku?”** e continua la sua conta.

Tornato al suo posto mormora qualcosa al collega ed entrambi poi ridono, alzando il volume della radio, di una risata malevola e cinica. Io comincio a guardarmi intorno, a centrarmi, a tentar di capire; chiedo ad una ragazza spagnola se ha una matita per studiare l’Oblomov che ho con me ed intanto osservo le facce. Alcune italiane, altre del nord d’Africa, spagnoli, francesi, rumeni, guardo me stesso nel finestrino. Parlano in pochi. Molti dormono, altri leggono, altri ancora ammirano quel po’ che resta del paesaggio. Solo gli spagnoli continuano a discutere, ad analizzare, a prendere le cose come vengono; a sentirsi e ad essere liberi a loro modo. Oblomov, che non dovrei leggere più, o almeno non più allo stesso modo dopo questo viaggio, mi rapisce nel suo incantesimo e mi fa addormentare per un centinaio di chilometri.

Gli occhi si aprono in una terra nuova, che sa di Alcatraz, di sbarco in Normandia, di approdo di Napoleone in Francia dopo l’Elba. I vetri dell’autobus adesso è come non esistessero tanto simile è l’atmosfera dentro che fuori da questo catorcio di latta che attraversa queste lande come una galera che si muova da se. I due che erano scesi a La Jorquera son nuovamente sul bus.

Arriviamo a Montpellier. Non si vedono per strada le belle donne di cui narrano le leggende su questa città, né l’assenza della crisi che a parole non riguarda una Francia deserta di macchine e persone. I commenti spagnoli dietro di me sembrano rilevare il contrario. Alcuni passeggeri scendono, io fumo una sigaretta. Prima di ripartire uno dei due polacchi mi guarda come a suggerirmi di tacere e di stare molto attento.

Forse la crisi scomparirà più avanti, forse le mie impressioni si riveleranno solo il frutto di una stanchezza accumulata in giorni passati pieni di momenti caotici e sublimi.

Spero Marsiglia, mi mostri un altro volto, mi faccia ravvedere e ci riesce in parte, in parte sembra tutto così ben organizzato da non consentirmi di sospettare di aver ragione. Anche qui strade deserte, poche macchine, bar vuoti, solo alcune coppie e piccole bande di negri che se ne vanno in giro. È una fermata di cambio. Alcuni dovrebbero salire su un altro pullman, vorrebbero almeno, ma sembra che quello sia completo.

E Marsiglia, uscendo dalla città, andando verso il centro, conferma e smentisce, con bar sempre vuoti e macchine ovunque, una pace irreale ed ambulanze contromano ai semafori, l’idea di accogliere ed aggredire, la crisi ed il fatto che sia un’invenzione quanto mi sembra di vedere, quanto probabilmente non è reale, il suo vero essere, miserabile e snob, scimmia e duchessa.

“Czarny nie rozumaja nic”*** dice l’autista a cui chiedo perché non faccia spostare un ragazzo diretto altrove come da lui richiesto. Solo dopo scoprirò che davvero i neri non capiscono niente, che la destinazione del tipo è quella del mio stesso bus. Ma il tono del polacco, quasi da gerarca è violento ed investe anche me. Torno al mio posto come un cane che ha imparato la lezione.

Non intendo dire che tutti i polacchi hanno un che di razzista, di arrogante superiorità, di francese direi quasi, ma questi due sembrano esserlo. Il bene non giudica, se non viene offeso. Il male non è che il bene offeso e giudica se stesso per quello che era ed il resto per quello che il resto lo ha reso.

Taccio e quasi non faccio rumore neanche a pensare. Non so dove finirà questo viaggio. A Tolone la spagnola con cui avevo parlato un attimo scende e mi ritrovo da solo, senza neanche la compagnia di una delle due bellissime ragazze francesi che salgono a bordo, bloccato da un’africana enorme che mi schiaccia contro il finestrino mi impedisce un qualunque tentativo di fuga, anche solo nelle intenzioni.

L’unica soluzione sembra l’oblomovismo, l’unica strategia dormire.

Così dormo; dormo fino a Imperia, dormo mentre passiamo da Torino e da Milano, dormo nel bagno di un autogrill vicino Parma, dormo all’autostazione di Bologna, dove aiuto gli ultimi deportati francesi a raggiungere Firenze, viaggio pagato dalla compagnia di bus per overbooking e dirottamento in Emilia, dormo mentre due di loro scappano via, dormo mentre mi allontano, dormo…

 

* di dove sei?

** Parli polacco?

***I negri non capiscono niente