Viaggio in Spagna 8 – Il giorno del turista

birmano+3

 

Provo a cambiare atteggiamento, risalendo i giorni, quasi sapendo cosa succederà o conscio di quanto è già successo.

Oggi regali. È solo l’ennesimo tentativo di avvicinamento, reciproco, tra me cugino straniero e gli indigeni. Incontri e regali. Scuse preventive e dovute, riconciliazioni di buon auspicio e saluti. Non ho nessun souvenir per quelli che mi hanno aiutato prima di partire e che forse mi accoglieranno al ritorno. Vorrei solo comprare delle scarpette da bambino ed un pelouche. Dovrebbe comparire la persona giusta a cui regalarle, ma non ci sono garanzie in merito.

Comincio a camminare prestissimo per le strade, madrileno e straniero, a cercar negozi, a comparare prezzi.

Sembra che anche in Spagna, come in Italia per i ragazzi e gli uomini, calcio a parte, non ci sia nessun negozio che si interessi del loro vestiario.

Sono le donne a mandare avanti l’economia, con i loro consumi e con le tariffe agevolate a cui prestano la loro manodopera. La logica del mercato moderno si basa su questo, ossia sul fatto che il lavoro, da un lato venga “dato” e dall’altro “prestato”. Il tributo in plusvalore consegnato al proprietario o all’imprenditore è solo un segno vago di una vecchia gratitudine.

Le grandi catene di distribuzioni hanno di tutto per tutti (per quanto il settore “donna” sia sempre più ricco), ma vorrei evitare di comprare qualcosa che chiunque potrebbe comprare. Tra gli acquisti, che mi riprometto di fare, c’è un ventaglio spagnolo, ma posticipo, mi racconto che ne troverò comunque sempre ovunque e che non è indispensabile comprarlo subito. E se poi lo rompessi? E poi, apprezzerebbe mia madre il fascino di un ventaglio spagnolo senza le palme e le strade sterrate ed i paesaggi di questa terra, senza sentire un’arsura che ti assorbe e ti rende parte di se?

Tornerò, forse un giorno e mi occuperò dei souvenir.

Son giorni ormai che mi consiglio di fuggire e progetto di tornare. Per giorni non farò che questo. I souvenir, in fondo, non son che bandierine da tenere in casa per ricordarsi delle conquiste che ci siamo concessi, per qualche giorno, negli anni, mentre adesso non so se questo mio star qui abbia alcun termine o ragione.

Ci penso tanto che non ci dovrei più pensare.

I pelouche son giusto dietro l’ostello. Non quelli che avrei voluto, ma comunque carini, coccolosi, degli animalucci di quelli che sicuramente piacciono. Alcuni sono anche abbastanza originali, da mostrare come trofei di caccia ma, onestamente, poco pratici per un abbraccio; gambe rigide, tenere orecchie appuntite, troppa plastica per dirsi pelouche. Scoiattoli, orsi bianchi, gatti, leoni, scimmie, piccole iguane, conigli, cani, balene, elefanti. Tra di loro perché ci sia una qualche differenza di valore, si adotta come discriminante non la specie o la razza, ma l’età. Più vecchio, quindi più grande, quindi di maggior valore.

La Spagna mi sta riconciliando, da Calimero in poi, con gli animali. Non che prima li odiassi, ma adesso quasi riesco a tollerare anche quelli che li amano spesso più degli umani. Quello che ancora non riesco a considerare seriamente come attività umana, non è più la cura di un animale, o il regalarne, di vivi o di finti, ma l’idea di acquistarne.

Mi annoia questo giorno, eppure la routine che gli chiedo di offrirmi, considerati i giorni precedenti e quelli a seguire, è quasi un rifugio che ho sperato mi venisse concesso.

L’acquisto è un’attività semplice. Si entra in un negozio, si guarda un po’ la merce, la si prova, la si compra e ci si saluta. Per me è così almeno e non so se sia corretto o scortese far così. Meglio far perdere tempo ai commessi con mille domande, chiedendogli dei suggerimenti, simulando un desiderio ed un interesse che è già quasi bisogno di comprare quella cosa lì e solo quella, oppure in tre minuti, chiedere di quello che cerchiamo e se c’è bene altrimenti salutare educatamente e cercare altrove? In che modo mi mostrerei più perditempo? In che modo più determinato ed interessato?

Il fatto è che questi animaletti son così carini. Son credibile nel dirmelo, spero di esserlo anche nel dirlo. Mi piacciono davvero tanto. Senza alcuna ironia. Ora il mio problema non è con loro, ma con i soldi per comprarli. Anche la tenerezza si compra e costa, ed in circostanze come queste, sembra essere anche abbastanza cara.

A vincere è un gatto, panzone, con un pelo striato di ocra e di giallo su un fondo bianchissimo, pelo morbidissimo, da abbracciare la notte in mancanza di meglio e lo guardo con gli occhi di chi pensa che sia difficile trovare di meglio. Gli stessi occhi di chi non vuole farsi assorbire dallo stress della selezione artificiale.

Lo compro. Completato l’acquisto mi sembra di meritare delle informazioni per trovare delle scarpe per un bambino di tre anni e mi fan sapere che l’unico negozio in zona ha chiuso giusto due settimane prima. In centro, a Madrid, in strade affollatissime, dove tutte le attività, se non son piene, sono almeno visitate da turisti più o meno curiosi e danarosi, non si trovano due scarpette per un bambino di tre anni.

Cercherò le scarpe nel pomeriggio. Torno in ostello per lasciare il gattino (una gattina, sfortunatamente, in realtà). Devo tornare anche per vedere se a giorni potrò spostarmi a Barcellona, o se in alternativa dovrò tornare a Valencia, o ancora se non sia meglio cercare un collegamento da Madrid con l’Italia. Qualunque cosa sarà pur sempre meglio dello star fermo qui tra vetrine o dietro delle vetrine.

Arrivo nelle varie città, ogni volta, con l’intento di fuggirne. Credo sia un calco della prima impressione che mi ha fatto Bologna, anni fa, un porto di mare, dove approdi per ripartire. Non ricordo più se l’abbia già detto (son passati dei giorni da quando ho messo mano a questo diario di viaggio), ma io sono una persona che mette radici prima di mettersi in viaggio.

Per rendermi meno penosa la ricerca di alternative, senza farle crescere senza controllo, senza che io aggiunga confusione a quella che comunque mi ha accompagnato fin qui e che aspetta solo che io esca per confondermi ancora, mando un messaggio ad una ragazza che mi avrebbe dovuto ospitare   e rimaniamo d’accordo che da lì ad un’ora potremmo pranzare assieme. Convincerla è stato semplice, accettare le sue condizioni un po’ più difficile, come per me limitare le mie richieste.

Essere un semplice turista è stata una copertura che ha comunque retto poco agli occhi di quelli che mi sono intorno. Il mio voler passare inosservato ha attirato la loro attenzione. Il mio desiderio di scomparire ha concentrato su di me i loro sguardi. Un unico obiettivo puntato contro di me. Come quello della tv che si è appena presentata alla reception.

Sono venuti per un servizio nel quale avrebbero parlato di quanto fosse facile trascorrere una giornata a Madrid con meno di venti euro. Alla telecamera si può solo mentire, così, una delle ospiti, sarebbe stata invitata a dire che dormiva lì per tredici euro quando in realtà la stanza più economica costava diciassette. Convincere questa ragazza, M., un medico colombiano temporaneamente senza lavoro è stato abbastanza difficile. Lei insisteva per evitare di comparire in tv così la reporter a chiesto a me e ad un altro ragazzo se per caso parlassimo spagnolo. Lo spagnolo ha detto di no, io, pensandomi già in un film di Almodovar (che sicuramente mi avrebbe per caso visto in tv e si sarebbe interessato alla mia espressività corporea e facciale), ho arrogantemente risposto alla domanda nella loro lingua. “Si”, in fondo, dovrebbe essere abbastanza uguale nelle due lingue come suono.

Mentre la giornalista mi intervistava, sulla velocità della connessione internet, sulla qualità dei servizi, sulla mia contentezza nel trovarmi a Madrid, io mi concentravo sullo schermo del computer. Mi rasserena, adesso, pensare che la mia intervista sia stata tagliata perché non guardavo né lei né la telecamera. La seconda ipotesi che mi è sembrato più logico avanzare era quella secondo la quale la mia intervista serviva solo a rendere meno timida la colombiana, che sarebbe stata intervistata subito dopo di me, e rendere lei la figura centrale del servizio con una piccola parte, aggiunta all’intervista, in cui avrebbe dovuto mentire ancora, fingendosi impiegata alla reception. La terza ipotesi, quella che una mente sensata e meno paranoica della mia, ma non per questo più attenta ai dettagli ed alle circostanze, considerati i giorni i giorni precedenti e quelli a seguire, consisteva nella necessità degli spagnoli o di chiunque altro stesse partecipando a questa studiata messa in scena, di localizzarmi, di sapere dove mi trovavo, dove dormivo. Seguire i miei spostamenti. In serata a quest’idea si sarebbe legata la delusione per il taglio della mia intervista nella messa in onda del servizio.

Esser divi è una prospettiva che affascina tutti, anche perché Warhol ce l’ha promesso.

Più tardi, seduto al tavolo assieme a J, la ragazza che avevo contattato, mi sarei mostrato felice di quanto mi era successo poc’anzi in albergo, contento di essere a Madrid, lieto di conoscerla, grato nei suoi confronti per avermi fatto conoscere un ristorante, rigorosamente in pieno centro, dove con dieci euro potevo scegliere un primo, un secondo, un dessert ed una qualunque bevuta.

“Oggi” però sono io al centro dell’attenzione. Il mio fare acquisti deve davvero averli messi sull’allarme.

  1. è una ragazza un po’ corpulenta, con un bel seno, labbra carnose e capelli selvaggiamente mossi. A tavola fumo e, puntando il fumo che sale dalla sigaretta sbircio nella sua scollatura. Questo non la offende o forse non ci fa caso o semplicemente non se ne accorge.

Comincio a parlarle dicendole che mi spiace per averla in qualche modo turbata chiedendole, mentre ci scrivevamo precedente, di vederci un paio di giorni e che davvero sarei stato felice di conoscere anche il suo ragazzo. Mi confessa di essersi davvero spaventata per questo mio approccio ma che incontrandomi si è tranquillizzata e che finalmente poteva confessarmi la sua menzogna. Tre anni prima stava per sposarsi quando lui dopo una litigata, ad un giorno dal matrimonio l’ha lasciata. Da quel momento, a suo dire, la sua vita è cambiata in meglio. Cambia tre o quattro ragazzi al mese, storie brevi, senza nessuna seconda intenzione, deludenti dopo poco ma comunque entusiasmanti. Ricordi da relegare al capitolo “hobby” o “abilità” di un curriculum in continuo aggiornamento. Il fatto che lei sia, in un certo senso, come sperava io non pensassi lei potesse essere, mi confonde. Avrei scoperto che non esiste nessun ragazzo in realtà, come mi aveva detto in chat, ma che solo per limitare le mie premesse e per tutelarsi se n’era inventato uno. A pensarci adesso, forse, tutto quello che mi è successo è solo quello che ho richiesto che mi succedesse. Deludono comunque le speranze quando, in un modo o nell’altro, non sono più tali. Non mi piace, me ne convinco. Le convinzioni sono più consolatorie delle speranze spesso, come quella che questo sia l’evolversi di un qualche complotto o piano ai miei danni, piuttosto che non lo sia.

Comincia a far domande. L’avevo contattata per un posto letto per alcune notti e mi ritrovo ad essere quello col faro puntato in faccia, per l’ennesima volta, durante un interrogatorio.

“Perché sei a Madrid? Hai visitato altre città in Spagna? Vuoi visitarne altre? Quanto ti fermi? Che lavoro fai? Studi? Ti piace la Spagna? Ma è vero che voi italiani siete romantici? Fai dello sport? Ascolti della musica? Leggi? Viaggi tanto? Che lingue parli?…”

Rispondo a tutte le sue domande. Divertito da una bambinona di trent’anni curiosa come una ragazza di dodici. Non badavo neanche tanto al contenuto delle risposte. Rispondevo correttamente a quanto mi veniva chiesto, ma non avevo alcuna strategia per conquistarla o colpirla in qualche modo. O meglio, una strategia ce l’avevo, la peggiore di tutte, considerati gli esiti personali ed il complotto generale. La sincerità.

“Una vacanza, solo una vacanza. Son stato a Valencia prima, vorrei visitare Barcellona (dopo questo passaggio lei si attiva per mettermi in contatto con degli amici di Barca senza alcun esito), ma se non riuscissi a trovare ospitalità lì probabilmente rientrerò, a Valencia o in Italia. Dovrei andar via da Madrid tra qualche giorno. Al momento non lavoro ma sto preparando un certo progetto, vorrei finire il mio secondo corso di studi prima di tornare a lavorare, sperando che sia possibile. Se mi piace la Spagna? Ho visto poco, bella e sospetta, come tutte le cose belle mi verrebbe da dire se questo non fosse un dialogo tra persone convenzionali. Non faccio sport da tanto. Ah, tu vai in palestra? Si vede, hai un corpo tonico e forte. Ascolto un po’ ogni genere di musica e se mi capita mi piace leggere anche. Quante lingue parlo? Nell’insieme direi cinque, alcune le invento, altre le ricordo appena, altre le dovrei recuperare completamente.”

“E circa il romanticismo degli italiani?”

“Cosa vuoi che ti dica? Se ti fa piacere sentirlo confermo la tua ipotesi con le parole e con i fatti. Non so quale sia lo standard spagnolo di romanticismo. Se si tratta di uccidere tori o elefanti no, gli italiani non son così romantici, troppo pigri anche rispetto a voi per esserlo. Se si tratta di comprar regali per qualcuno i cui occhi renderanno un regalo un spreco, beh, è già più probabile. Di base credo gli italiani siano più latin lover che dei soggetti “romantici” nello stile. Vivono di reputazioni, mentre le infangano.”

“Non capisco quello che dici. Ascolta, che programmi hai per il pomeriggio?”

“Non saprei, facciamo un giro a casa tua?”

“Per cosa?”

“Sottoporre alla prova dei fatti le voci sul romanticismo italiano”

“Non capisco molto di quel che dici ma mi affascina la vostra lingua”

“Si si, lo so, non io potrei mai piacere, ma il mio essere italiano. C’è tanto di quel razzismo di questo tipo nei miei confronti ogni volta che vado all’estero. Allora, andiamo da te?”

“Ma no, per chi mi hai preso?”

“Sei stata tu a dirmi dei tuoi tre amanti al mese. Siamo all’inizio d’agosto, magari potresti portarti avanti con la collezione”

“Ma dai…” ride lei

“E allora niente, dovrei comprare delle scarpette per un bambino”

“Per chi?”

“Un bambino che neanche conosco”

“E perché devi?”

“Una lunga storia. Voglio, più che devo. Solo che sembra non abbiate bambini in Spagna a giudicare dai negozi di scarpe per bambini che ho, o meglio, non ho visto in giro”

“Possiamo andare all’H&M, lì sicuramente ci saranno”

Andando via rimprovera degli zingari che si erano avvicinati ed urla ai camerieri di recuperare in fretta i nostri soldi prima che gli stessi glieli portino via. Anche il francese mi aveva messo in guardia a proposito degli zingari dicendo che in Francia mai si sarebbero avvicinati a dei soldi lasciati sul tavolo di un ristorante, ma in Spagna…Tutta questa diffidenza nei confronti dei Rom non fa che raddoppiare i miei sospetti ed i miei dubbi, anche in una giornata dedica alle attività di routine per un turista. Non mi fido dei Rom, né di chi mi mette in guardia nei loro confronti.

Andando verso uno degli empori di vestiti identici in ogni parte del mondo, come il sistema li vuole, incontriamo per strada bande organizzate di sciuscià messicani, residui post bellici e post coloniali. Mi guardano e mi invitano con gli occhi a sedermi per lustrarmi le scarpe, ma anche ad averli ai piedi dei mocassini il caldo madrileno scioglierebbe il lucido in meno di cento metri di trattini alternativamente tracciati sul marciapiede. E poi, con quella pelle così poco europea, zingara a suo modo, non me la sento di sedermi ad uno dei loro scranni. Nei loro occhi c’è come una rabbiosa minaccia. Tuttavia c’è anche, non so, come un timore nel parlare pubblicamente di quello di cui mi potrebbero parlare. Ma come fare lì, nella via più commerciale di Madrid, sotto gli occhi di tutti. Forse la mia paura è solo imbarazzo, forse dovrei avvinarmi, forse…

“Io d’inverno mi faccio lustrare le scarpe almeno una volta a settimana” dice J. “fanno un ottimo lavoro questi messicani”

“Se le vieni a lustrare una volta la settimana d’inverno, ed immagino tu ne abbia tante di scarpe essendo una donna, non fanno poi davvero un ottimo lavoro” provo a scherzarci su io, anche se in realtà penso “sicuramente il governo per cui mi ha detto di lavorare per una busta paga da fame le ha promesso un aumento il prossimo mese se riuscirà a compiere una certa qual missione o se sarà capace di strapparmi delle informazioni o quantomeno se per un giorno potrà tenermi lontano da quelli che, non so, magari, forse, potrebbero…”

Più della violenza, la cortesia mi è sospetta. In questo esatto momento, di descrizione e di cosa descritta, l’aiuto mi è più sgradito dell’ostacolo.

Ci vogliono un paio d’ore per trovare il negozio di scarpe. Poi lei va via, a raggiungere un’amica mi dirà.

Io rientro in ostello senza nessuno a cui regalare quello che tanta fatica mi è costato trovare.

Nella camera in cui son stato spostato c’è una ragazza tedesca che è in viaggio con la madre in sostituzione del compagno della stessa che ha paura di volare. Facciamo due chiacchere. Le chiedo se posso togliere i pantaloni e dormire un po’.

“Fa come se fossi a casa tua” mi dice sorridendo maliziosa come un’esperta Lolita prima di scendere sensualmente goffa nella sua arianità dal letto a castello sul quale era stesa a leggere. Le sue gambe lunghe potrebbero toccare il pavimento in due movimenti, ma lei, sporgendo in maniera involontariamente provocatoria e sensuale il suo piccolo culo rotondo e germanico poggia il suo piede da tagliaboschi nano su ogni gradino.

Ci proverei anche. Ma son stanco e per oggi con le donne ho chiuso.

Viaggio in Spagna – Gli autisti polacchi

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Tra poco sarà tutto finito, ed è giusto cominciar da qui, perchè è da qui che tutto è cominciato. Ogni fine è un vecchio inizio dice un adagio russo che chiude una sinfonia in un modo in cui non si è mai chiusa. È la fine che da e toglie senso alle cose, a quanto è stato e a quanto sarà e così torna un comune senso d’Italia mentre diminuiscono avvicinandosi a Tolone i chilometri e gli euro necessari e da pagare e tornano con me che torno i soliti pregiudizi e le opinioni e fatti complici a testimoniare.

Vado dove non voglio tornare, torno dove non vorrei restare, sono uno che mette radici prima di mettersi in viaggio, ho per casa lo spostamento e l’allontanamento da una casa che è un nido di urla e relazioni forzate, una casa che si chiama casa e non lo è, pareti ai lati della testa, sbarre sugli occhi, orecchie piene di grilli che cantano e voci comuni, assenza di mondo.

A riportarmi in Italia è la Polonia, con un autobus che accoglie come i carri bestiame d’un tempo ogni tipo di razza e religione e cultura. Le mie idee da nuove che erano qualche centinaio di chilometri prima tornano quelle consuete, senza che si possa distinguere cosa del mondo sia una mia idea e quale di queste sia un riflesso perfetto del mondo.

La sospensione del giudizio è l’inizio della felicità, la felicità è non cercarla. Così mi riesce solo di dire quanto ho visto, senza farne un romanzo, senza pensare, anche se forse dovrei, che dietro tutto questo, in fondo, forse c’è qualcosa di nascosto, di non detto, da intuire che fa immaginare che forse potrebbe essere tutto meglio o peggio di com’è.

La Disco Polo polacca è come la voce ed i filmati nei libri di Orwell. In fuga, anni fa dalla Polonia, mi ritrovo, anni dopo, ripreso, quasi catturato da due autisti polacchi. Son fattori che dovrei analizzare, ma non ho tempo, manca poco a tutto, al solito niente che mi limiterà sicuramente nella scrittura. È come se venissi punito per aver provato, passando di là, più o meno per caso, a rivedere una persona e rientrare, che si chiami Polonia o Italia poco importa, è come essere costretto a stare dove non la rivedrò più, per quanto neanche mi importi di rivederla. Le cose son cambiate cambiandomi, dopo anni che tutto era uguale come me.

Ero uscito un attimo per ritrovarmi e per allontanarmi da me, quasi evadendo e giusto il tempo che quegli uomini lì si rimettessero sulle mie tracce ed eccomi scortato al solito posto ed al solito umore. La libertà è perdersi ed io invece provavo a controllare tutto, a sapere dov’ero e cosa facevo, distribuivo qua e là indizi di intenzioni, impronte di atti, mostravo come una volontà. Non so se dal primo minuto della mia passeggiata in poi loro si fossero subito accorti della mia fuga, né quanto tempo ci abbiano messo per collegare spostamenti ed informazioni che mi cadevano dalle tasche, ma adesso mi sembra di essere stato trovato. A suo modo anche essere trovati è perdersi, ma questa è una libertà d’un altro tipo. Trovarsi in due, lasciarsi in due, ritrovarsi in due, per un po’ questa è stata vita e libertà insieme.

Meglio vivere, nel modo apparentemente più naturale e sincero possibile, per non dar nell’occhio per scomparire, per far sembrare tutto regolare come han fatto loro con me.

Non ho individuato subito l’origine dei due, me l’han rivelata loro, non rivolgendosi direttamente a me, ma parlando con altri, ascoltando la radio, urlando. Hanno anche finto di non volermi a bordo, di avere intenzione non più di incarcerarmi, ma di esiliarmi. Mi han distratto maltrattando altri, i nuovi, quelli che ancora non sapevano a cosa sarebbero andati incontro.

In carcere, come in viaggio, ci son momenti che son solo mangiare, fumare sigarette e dormire. Pensavo di aver tenuto gli occhi aperti mentre mi avvicinavo al confine precedente, ma è come se avessi sognato campi d’ulivo che diventavano pini, le pianure montagne, le spiagge attracchi per lo sbarco di aridi deserti; la varietà, invece di insegnarmi qualcosa, era lì a nascondermi la verità, a confondermi e distrarmi.

I due ridevano ed urlavano e davano ordini ed offendevano. Essere uno di loro, uno che parlava la loro lingua, non proprio bianco ma neanche completamente nero, credo mi abbia aiutato ad essere trattato in maniera più riguardosa, ad ispirargli fiducia, a lasciarmi andare dove mi era consentito andare.

Ho scoperto in loro, non solo un rigore ed una dedizione che mi erano noti, ma anche una capacità immaginativa e d’improvvisazione che mai mi sarei sognato di attribuirgli. Aspettavano o sceglievano senza che fossero previste le soste per mettere in atto le loro piccole rappresaglie, il loro insegnamento delle norme.

A cavallo della prima delle due frontiere uno di quelli stipati a bordo ha deciso di accendere una sigaretta. Gli hanno consentito di fare alcuni tiri poi gli han gridato contro:

“Ma sei stupido? Cosa fai?” e poi, ruotando il polso ruotandogli la testa gli han puntato lo sguardo su un vetro “lo vedi quel segnale? Non si fuma qui. A La Jonquera scendi”.

Per mascherare, non solo col loro inglese stentato, ma anche con i fatti i loro piani hanno improvvisato una sosta. È nei momenti di stasi che bisogna chiedersi cosa stia realmente succedendo. Siamo scesi, io sorridevo come chi da certe esperienze c’è già passato ma insieme affascinato dall’esperienza che la stessa cosa, in modi più o meno simili stesse succedendo a qualcun altro. Non capivo ancora cosa stesse realmente succedendo, non avevo coscienza che quella sosta, coinvolgeva o avrebbe coinvolto anche me.

Vado in bagno e lì una nuova distrazione. Alcuni cartelli scritti in spagnolo, francese, inglese ed italiano, con degli errori sulla mia lingua e delle correzioni col pennarello. Una donna delle pulizie a chiacchierare con un uomo che aveva appena usato i servizi ed io che mi arruolo nella rappresentazione della scena, segnalando gli errori in italiano, l’ignoranza divertita della signora che intanto si spostava da un lavandino all’altro rallentandomi in qualche modo nel mio volermi sciacquare la faccia e lavare le mani.

Torno verso il bus e vedo un altro ragazzo, anche lui a bordo del mio stesso autobus come quello che sarebbe stato appiedato, che si mette a correre, zaino in spalla, verso un guardrail e, dopo aver chiesto delle informazioni ed essersi fatto indicare una via tra i monti, si muove, scegliendo il momento adatto per attraversare, quasi fuggendo o cercando la polizia o un passaggio.

Ripartiamo ed io comincio a riflettere. I monti rannicchiati si distendono nella prima serata concedendosi un sonno di pianura. I movimenti delle linee della terra, come un bending di ritorno su una corda di chitarra, sembrano insinuare una melodia di nenia. Gli occhi mi si chiudono quasi, ma prima d’addormentarmi chiedo ad uno dei due autisti polacchi, che passa nel corridoio per contare i passeggeri: “Skad jestecie?”*. Non risponde alla domanda, ma chiede a sua volta, tra il sorpreso e l’infastidito: “Czy ty mowisz po polsku?”** e continua la sua conta.

Tornato al suo posto mormora qualcosa al collega ed entrambi poi ridono, alzando il volume della radio, di una risata malevola e cinica. Io comincio a guardarmi intorno, a centrarmi, a tentar di capire; chiedo ad una ragazza spagnola se ha una matita per studiare l’Oblomov che ho con me ed intanto osservo le facce. Alcune italiane, altre del nord d’Africa, spagnoli, francesi, rumeni, guardo me stesso nel finestrino. Parlano in pochi. Molti dormono, altri leggono, altri ancora ammirano quel po’ che resta del paesaggio. Solo gli spagnoli continuano a discutere, ad analizzare, a prendere le cose come vengono; a sentirsi e ad essere liberi a loro modo. Oblomov, che non dovrei leggere più, o almeno non più allo stesso modo dopo questo viaggio, mi rapisce nel suo incantesimo e mi fa addormentare per un centinaio di chilometri.

Gli occhi si aprono in una terra nuova, che sa di Alcatraz, di sbarco in Normandia, di approdo di Napoleone in Francia dopo l’Elba. I vetri dell’autobus adesso è come non esistessero tanto simile è l’atmosfera dentro che fuori da questo catorcio di latta che attraversa queste lande come una galera che si muova da se. I due che erano scesi a La Jorquera son nuovamente sul bus.

Arriviamo a Montpellier. Non si vedono per strada le belle donne di cui narrano le leggende su questa città, né l’assenza della crisi che a parole non riguarda una Francia deserta di macchine e persone. I commenti spagnoli dietro di me sembrano rilevare il contrario. Alcuni passeggeri scendono, io fumo una sigaretta. Prima di ripartire uno dei due polacchi mi guarda come a suggerirmi di tacere e di stare molto attento.

Forse la crisi scomparirà più avanti, forse le mie impressioni si riveleranno solo il frutto di una stanchezza accumulata in giorni passati pieni di momenti caotici e sublimi.

Spero Marsiglia, mi mostri un altro volto, mi faccia ravvedere e ci riesce in parte, in parte sembra tutto così ben organizzato da non consentirmi di sospettare di aver ragione. Anche qui strade deserte, poche macchine, bar vuoti, solo alcune coppie e piccole bande di negri che se ne vanno in giro. È una fermata di cambio. Alcuni dovrebbero salire su un altro pullman, vorrebbero almeno, ma sembra che quello sia completo.

E Marsiglia, uscendo dalla città, andando verso il centro, conferma e smentisce, con bar sempre vuoti e macchine ovunque, una pace irreale ed ambulanze contromano ai semafori, l’idea di accogliere ed aggredire, la crisi ed il fatto che sia un’invenzione quanto mi sembra di vedere, quanto probabilmente non è reale, il suo vero essere, miserabile e snob, scimmia e duchessa.

“Czarny nie rozumaja nic”*** dice l’autista a cui chiedo perché non faccia spostare un ragazzo diretto altrove come da lui richiesto. Solo dopo scoprirò che davvero i neri non capiscono niente, che la destinazione del tipo è quella del mio stesso bus. Ma il tono del polacco, quasi da gerarca è violento ed investe anche me. Torno al mio posto come un cane che ha imparato la lezione.

Non intendo dire che tutti i polacchi hanno un che di razzista, di arrogante superiorità, di francese direi quasi, ma questi due sembrano esserlo. Il bene non giudica, se non viene offeso. Il male non è che il bene offeso e giudica se stesso per quello che era ed il resto per quello che il resto lo ha reso.

Taccio e quasi non faccio rumore neanche a pensare. Non so dove finirà questo viaggio. A Tolone la spagnola con cui avevo parlato un attimo scende e mi ritrovo da solo, senza neanche la compagnia di una delle due bellissime ragazze francesi che salgono a bordo, bloccato da un’africana enorme che mi schiaccia contro il finestrino mi impedisce un qualunque tentativo di fuga, anche solo nelle intenzioni.

L’unica soluzione sembra l’oblomovismo, l’unica strategia dormire.

Così dormo; dormo fino a Imperia, dormo mentre passiamo da Torino e da Milano, dormo nel bagno di un autogrill vicino Parma, dormo all’autostazione di Bologna, dove aiuto gli ultimi deportati francesi a raggiungere Firenze, viaggio pagato dalla compagnia di bus per overbooking e dirottamento in Emilia, dormo mentre due di loro scappano via, dormo mentre mi allontano, dormo…

 

* di dove sei?

** Parli polacco?

***I negri non capiscono niente

Io non so gridare, canto (Vi faccio un regalo)

Io non so gridare, canto
Vi regalo un racconto
Vi dico subito che non è una storia da cui apprendere un qualunque addestramento o linee a cui aspirare.
Io vivo come uno che si trova ogni mattino sulle labbra dell’utero, indeciso e sospeso , alle prime luci dell’alba, se prender su una giacca o andare a passeggiare in sandali, indeciso anche su dove andare.
Le cose a volte arrivano prima di quanto ci si aspettasse, come un giorno di sciopero dei treni che ci sarebbe da aspettare 2 ore e 50 minuti, ma anche quello che arriva tra 10 minuti mi porterà a Bologna ugualmente.
Poi è un leggere il codice civile dell’amore dettato da Flaubert, una M.me Dembreuse negra e vestita da Armani a cui ammiccare, una sedicenne rossa tettuta come la figlia promessa del campagnolo, lolite version 7.0 ed intanto leggere, Pellerin e Rembrant a disturbare, e tu lì a leggere, a fare neanche più il filosofo, ma l’intellettuale.
Vai a casa e prima di tutto si tratta di pulire. I cessi, il corridoio, la cucina, tutto quello che ai tuoi ospiti consentirai di vedere. E poi ti stendi un attimo letto e ti rilassi e rilassarsi è uno scherzo per chi non fa niente, rilassarsi è un gioco.
E il poker è il gioco.
Il poker è un gioco che ti insegna per prima cosa a perdere.
Tu sai di cosa disponi, ma come comunicarlo agli altri, come intimorirli, come suggerirgli che in fin dei conti si possono fidare, come convincerli che va bene un “all in” per questi 50c, che vediamo quanto il gioco per voi davvero vale?
Il poker insegna a perdere, ma non insegna mai a vincere. Vinci da mesi, ma poi il primo pischello prova a chiamare il tuo “all in” avendo in mano sono un 4 di fiori ed un 3 di quadri e le prime quattro carte a quadri vanno dall’uno al 5. Questo soprattutto insegna il poker. Che la tua volontà e la tua intelligenza non vincono il caso.
Ti insegna, il poker, che la vita è sempre altro da quel che vogliamo, che mentre le chiediamo il permesso di assecondarci, ci porta al guinzaglio.
Si, hai parlato con una che ti piaceva 6 anni fa ed è come 6 anni fa, bellissima, di plastica, eterna ed eterea, ma tace e forse proprio per questo è “lei” perché tu per lei di fronte a lei taci, non hai di che dire e se parlassi ad ogni singolo suono non potrebbe che peggiorare.
Come il tipo in Via de Ranocchi a Bologna.
Perché è importante sapere dove succedono le cose. Per sentire il sangue del cuore, è l’aorta che bisogna tagliare, non i capillari delle palme dei piedi.
Poco prima avevi conosciuto una tipa tra i 55 ed i 65 anni, elegante, estone nell’aspetto, con un orgoglio di stoffa a sottolineare la bava di champagne della coppa che le teneva i seni. Di Udine, tedesca e poco altro, quasi a disagio tra suoi simili così diversi.
Tutto un parlar d’avvocati, e relazioni amicali da condonare per altre che mai han costituito reato.
Opinioni diverse e poi il sole si abbassa e l’osteria chiude.
Fortunatamente pochi metri dopo un altro bar e aperto, si parla di Twin Peaks, e proprio ora che tutta questa pacifica normalità dovrebbe allarmare serve un iPhone per riconoscere le paure.
E domande su domande, e la paura diventa curiosità e la curiosità fastidio.
Si torna a bere.
L’aria è calda e fresca.
E si avvicina un cane, all’apparenza cieco, ed un molosso lo azzanna appena gli si avvicina.
“Chiamo la polizia!” è la prima reazione dell’uomo, tradito, da quanto non si smette di dire in giro, sulla sua compagna e su di lui.
“Ho sempre la museruola, è sempre calma” gli dice la ragazza “mi dispiace”
E dal cane azzannato la vittima diventa lei. Dal cane alla donna il passo è breve.
I vigili arrivano con un’ora e 50 minuti di vantaggio sulla polizia che 4 giorni prima, in occasione della finale di Champions non sapevano se intervenire o meno per sedare una rissa.
Il mondo ha le sue priorità e le sue leggi. Prima i cani, poi gli uomini. Poi gli uomini con le leggi sui cani. Così poco si controllano e si rispettano tra di loro che per mantenersi sani un feticcio gli serve. Chi ha ragione soffre il dolore del cane, lui, tradito da un mondo che non ha mai conosciuto, urla i suoi torti, vanta le sue mancanze.
Comunque, si, va bene, tutti, ma io no, io non posso parlare di politica, io non posso conoscere la gente. Come quell’altra che dieci minuti dopo arriva a denunciare un gavettone. Per strada una rissa tra cani stava per finire con un’interdizione dai pubblici uffici e sta cagna rompe i coglioni per un po’ d’acqua all’inizio dell’estate. Ed il giorno prima in chiesa a render grazie per l’acquazzone. Solo le mutande aveva bagnate. A suo dire.
Poi niente, torna la pace e torna il tipo col cane. Gli altri non c’erano, decoravano, ispiravano offerte di oltraggi.
Ma andiamocene, tutto scompare, come il vino lasciato al bancone.
Ma questa storia, di cani e di obblighi, di uomini e di diritti dei cani, la dovevo raccontare.
Io non so gridare, canto.
Canto in via Oberdan.
E lì una donna di un’eleganza indefinibile ed immeritata. Devo raccontarle tutto, solo per questo, credo, mi abbia guardato. E comincio a farla sorridere mentre io sprofondo tra i buchi delle reti di logiche che mi avevano sostenuto e che una volta afferrate, lasciavo, con assenza di bisogno ed indifferenza.
Le chiedo se sia possibile bere con lei un bicchiere, fuori, ma fuori non si può mi fa notare il gestore del locale e se la ragazza beve deve rientrare. Ci son delle leggi in merito. Dal cane alla donna il passo è breve ed una volta dentro sono io a non avere il diritto di dirle due parole.
Vado via fischiettando, svegliando paure, di nature animali che non conoscono la meccanica dei flauti per fischiare.
E di nuovo raccontare tutto, camminare, dopo aver fumato via la ferrosità delle linee, come cadendo volendosi liberare del paracadute che ti avvolgerà sotto tornandoti addosso, come le pensiline dove, già prima di sapere il nome chiedi al tizio se c’è molto d’aspettare.
Poi dispensi consigli, inventi tratte per gli autobus lungo le linee urbane, scegli gli orari, incuti paure che il controllo arrivi quando tutti già da due fermate guardavano il controllore. Che timbri prima lui, a te restano due fermate.
Hai chiamato la fermata, ti volti a destra e vedi una ragazza africana, con quei brufoli in fronte così caratteristici neanche si spulciassero in continuazione. Scarsa di tette, labbra carnose. Ad un passo ed un vetro e tu ad un passo da un vetro che speri non s’apra.
Le sorridi con gli occhi.
Ma avrà capito?
Le soffi un bacio con le labbra, come ci avessi provato.
Se avesse un valore, non sarebbe un regalo.