Viaggio in Spagna 8 – Il giorno del turista

birmano+3

 

Provo a cambiare atteggiamento, risalendo i giorni, quasi sapendo cosa succederà o conscio di quanto è già successo.

Oggi regali. È solo l’ennesimo tentativo di avvicinamento, reciproco, tra me cugino straniero e gli indigeni. Incontri e regali. Scuse preventive e dovute, riconciliazioni di buon auspicio e saluti. Non ho nessun souvenir per quelli che mi hanno aiutato prima di partire e che forse mi accoglieranno al ritorno. Vorrei solo comprare delle scarpette da bambino ed un pelouche. Dovrebbe comparire la persona giusta a cui regalarle, ma non ci sono garanzie in merito.

Comincio a camminare prestissimo per le strade, madrileno e straniero, a cercar negozi, a comparare prezzi.

Sembra che anche in Spagna, come in Italia per i ragazzi e gli uomini, calcio a parte, non ci sia nessun negozio che si interessi del loro vestiario.

Sono le donne a mandare avanti l’economia, con i loro consumi e con le tariffe agevolate a cui prestano la loro manodopera. La logica del mercato moderno si basa su questo, ossia sul fatto che il lavoro, da un lato venga “dato” e dall’altro “prestato”. Il tributo in plusvalore consegnato al proprietario o all’imprenditore è solo un segno vago di una vecchia gratitudine.

Le grandi catene di distribuzioni hanno di tutto per tutti (per quanto il settore “donna” sia sempre più ricco), ma vorrei evitare di comprare qualcosa che chiunque potrebbe comprare. Tra gli acquisti, che mi riprometto di fare, c’è un ventaglio spagnolo, ma posticipo, mi racconto che ne troverò comunque sempre ovunque e che non è indispensabile comprarlo subito. E se poi lo rompessi? E poi, apprezzerebbe mia madre il fascino di un ventaglio spagnolo senza le palme e le strade sterrate ed i paesaggi di questa terra, senza sentire un’arsura che ti assorbe e ti rende parte di se?

Tornerò, forse un giorno e mi occuperò dei souvenir.

Son giorni ormai che mi consiglio di fuggire e progetto di tornare. Per giorni non farò che questo. I souvenir, in fondo, non son che bandierine da tenere in casa per ricordarsi delle conquiste che ci siamo concessi, per qualche giorno, negli anni, mentre adesso non so se questo mio star qui abbia alcun termine o ragione.

Ci penso tanto che non ci dovrei più pensare.

I pelouche son giusto dietro l’ostello. Non quelli che avrei voluto, ma comunque carini, coccolosi, degli animalucci di quelli che sicuramente piacciono. Alcuni sono anche abbastanza originali, da mostrare come trofei di caccia ma, onestamente, poco pratici per un abbraccio; gambe rigide, tenere orecchie appuntite, troppa plastica per dirsi pelouche. Scoiattoli, orsi bianchi, gatti, leoni, scimmie, piccole iguane, conigli, cani, balene, elefanti. Tra di loro perché ci sia una qualche differenza di valore, si adotta come discriminante non la specie o la razza, ma l’età. Più vecchio, quindi più grande, quindi di maggior valore.

La Spagna mi sta riconciliando, da Calimero in poi, con gli animali. Non che prima li odiassi, ma adesso quasi riesco a tollerare anche quelli che li amano spesso più degli umani. Quello che ancora non riesco a considerare seriamente come attività umana, non è più la cura di un animale, o il regalarne, di vivi o di finti, ma l’idea di acquistarne.

Mi annoia questo giorno, eppure la routine che gli chiedo di offrirmi, considerati i giorni precedenti e quelli a seguire, è quasi un rifugio che ho sperato mi venisse concesso.

L’acquisto è un’attività semplice. Si entra in un negozio, si guarda un po’ la merce, la si prova, la si compra e ci si saluta. Per me è così almeno e non so se sia corretto o scortese far così. Meglio far perdere tempo ai commessi con mille domande, chiedendogli dei suggerimenti, simulando un desiderio ed un interesse che è già quasi bisogno di comprare quella cosa lì e solo quella, oppure in tre minuti, chiedere di quello che cerchiamo e se c’è bene altrimenti salutare educatamente e cercare altrove? In che modo mi mostrerei più perditempo? In che modo più determinato ed interessato?

Il fatto è che questi animaletti son così carini. Son credibile nel dirmelo, spero di esserlo anche nel dirlo. Mi piacciono davvero tanto. Senza alcuna ironia. Ora il mio problema non è con loro, ma con i soldi per comprarli. Anche la tenerezza si compra e costa, ed in circostanze come queste, sembra essere anche abbastanza cara.

A vincere è un gatto, panzone, con un pelo striato di ocra e di giallo su un fondo bianchissimo, pelo morbidissimo, da abbracciare la notte in mancanza di meglio e lo guardo con gli occhi di chi pensa che sia difficile trovare di meglio. Gli stessi occhi di chi non vuole farsi assorbire dallo stress della selezione artificiale.

Lo compro. Completato l’acquisto mi sembra di meritare delle informazioni per trovare delle scarpe per un bambino di tre anni e mi fan sapere che l’unico negozio in zona ha chiuso giusto due settimane prima. In centro, a Madrid, in strade affollatissime, dove tutte le attività, se non son piene, sono almeno visitate da turisti più o meno curiosi e danarosi, non si trovano due scarpette per un bambino di tre anni.

Cercherò le scarpe nel pomeriggio. Torno in ostello per lasciare il gattino (una gattina, sfortunatamente, in realtà). Devo tornare anche per vedere se a giorni potrò spostarmi a Barcellona, o se in alternativa dovrò tornare a Valencia, o ancora se non sia meglio cercare un collegamento da Madrid con l’Italia. Qualunque cosa sarà pur sempre meglio dello star fermo qui tra vetrine o dietro delle vetrine.

Arrivo nelle varie città, ogni volta, con l’intento di fuggirne. Credo sia un calco della prima impressione che mi ha fatto Bologna, anni fa, un porto di mare, dove approdi per ripartire. Non ricordo più se l’abbia già detto (son passati dei giorni da quando ho messo mano a questo diario di viaggio), ma io sono una persona che mette radici prima di mettersi in viaggio.

Per rendermi meno penosa la ricerca di alternative, senza farle crescere senza controllo, senza che io aggiunga confusione a quella che comunque mi ha accompagnato fin qui e che aspetta solo che io esca per confondermi ancora, mando un messaggio ad una ragazza che mi avrebbe dovuto ospitare   e rimaniamo d’accordo che da lì ad un’ora potremmo pranzare assieme. Convincerla è stato semplice, accettare le sue condizioni un po’ più difficile, come per me limitare le mie richieste.

Essere un semplice turista è stata una copertura che ha comunque retto poco agli occhi di quelli che mi sono intorno. Il mio voler passare inosservato ha attirato la loro attenzione. Il mio desiderio di scomparire ha concentrato su di me i loro sguardi. Un unico obiettivo puntato contro di me. Come quello della tv che si è appena presentata alla reception.

Sono venuti per un servizio nel quale avrebbero parlato di quanto fosse facile trascorrere una giornata a Madrid con meno di venti euro. Alla telecamera si può solo mentire, così, una delle ospiti, sarebbe stata invitata a dire che dormiva lì per tredici euro quando in realtà la stanza più economica costava diciassette. Convincere questa ragazza, M., un medico colombiano temporaneamente senza lavoro è stato abbastanza difficile. Lei insisteva per evitare di comparire in tv così la reporter a chiesto a me e ad un altro ragazzo se per caso parlassimo spagnolo. Lo spagnolo ha detto di no, io, pensandomi già in un film di Almodovar (che sicuramente mi avrebbe per caso visto in tv e si sarebbe interessato alla mia espressività corporea e facciale), ho arrogantemente risposto alla domanda nella loro lingua. “Si”, in fondo, dovrebbe essere abbastanza uguale nelle due lingue come suono.

Mentre la giornalista mi intervistava, sulla velocità della connessione internet, sulla qualità dei servizi, sulla mia contentezza nel trovarmi a Madrid, io mi concentravo sullo schermo del computer. Mi rasserena, adesso, pensare che la mia intervista sia stata tagliata perché non guardavo né lei né la telecamera. La seconda ipotesi che mi è sembrato più logico avanzare era quella secondo la quale la mia intervista serviva solo a rendere meno timida la colombiana, che sarebbe stata intervistata subito dopo di me, e rendere lei la figura centrale del servizio con una piccola parte, aggiunta all’intervista, in cui avrebbe dovuto mentire ancora, fingendosi impiegata alla reception. La terza ipotesi, quella che una mente sensata e meno paranoica della mia, ma non per questo più attenta ai dettagli ed alle circostanze, considerati i giorni i giorni precedenti e quelli a seguire, consisteva nella necessità degli spagnoli o di chiunque altro stesse partecipando a questa studiata messa in scena, di localizzarmi, di sapere dove mi trovavo, dove dormivo. Seguire i miei spostamenti. In serata a quest’idea si sarebbe legata la delusione per il taglio della mia intervista nella messa in onda del servizio.

Esser divi è una prospettiva che affascina tutti, anche perché Warhol ce l’ha promesso.

Più tardi, seduto al tavolo assieme a J, la ragazza che avevo contattato, mi sarei mostrato felice di quanto mi era successo poc’anzi in albergo, contento di essere a Madrid, lieto di conoscerla, grato nei suoi confronti per avermi fatto conoscere un ristorante, rigorosamente in pieno centro, dove con dieci euro potevo scegliere un primo, un secondo, un dessert ed una qualunque bevuta.

“Oggi” però sono io al centro dell’attenzione. Il mio fare acquisti deve davvero averli messi sull’allarme.

  1. è una ragazza un po’ corpulenta, con un bel seno, labbra carnose e capelli selvaggiamente mossi. A tavola fumo e, puntando il fumo che sale dalla sigaretta sbircio nella sua scollatura. Questo non la offende o forse non ci fa caso o semplicemente non se ne accorge.

Comincio a parlarle dicendole che mi spiace per averla in qualche modo turbata chiedendole, mentre ci scrivevamo precedente, di vederci un paio di giorni e che davvero sarei stato felice di conoscere anche il suo ragazzo. Mi confessa di essersi davvero spaventata per questo mio approccio ma che incontrandomi si è tranquillizzata e che finalmente poteva confessarmi la sua menzogna. Tre anni prima stava per sposarsi quando lui dopo una litigata, ad un giorno dal matrimonio l’ha lasciata. Da quel momento, a suo dire, la sua vita è cambiata in meglio. Cambia tre o quattro ragazzi al mese, storie brevi, senza nessuna seconda intenzione, deludenti dopo poco ma comunque entusiasmanti. Ricordi da relegare al capitolo “hobby” o “abilità” di un curriculum in continuo aggiornamento. Il fatto che lei sia, in un certo senso, come sperava io non pensassi lei potesse essere, mi confonde. Avrei scoperto che non esiste nessun ragazzo in realtà, come mi aveva detto in chat, ma che solo per limitare le mie premesse e per tutelarsi se n’era inventato uno. A pensarci adesso, forse, tutto quello che mi è successo è solo quello che ho richiesto che mi succedesse. Deludono comunque le speranze quando, in un modo o nell’altro, non sono più tali. Non mi piace, me ne convinco. Le convinzioni sono più consolatorie delle speranze spesso, come quella che questo sia l’evolversi di un qualche complotto o piano ai miei danni, piuttosto che non lo sia.

Comincia a far domande. L’avevo contattata per un posto letto per alcune notti e mi ritrovo ad essere quello col faro puntato in faccia, per l’ennesima volta, durante un interrogatorio.

“Perché sei a Madrid? Hai visitato altre città in Spagna? Vuoi visitarne altre? Quanto ti fermi? Che lavoro fai? Studi? Ti piace la Spagna? Ma è vero che voi italiani siete romantici? Fai dello sport? Ascolti della musica? Leggi? Viaggi tanto? Che lingue parli?…”

Rispondo a tutte le sue domande. Divertito da una bambinona di trent’anni curiosa come una ragazza di dodici. Non badavo neanche tanto al contenuto delle risposte. Rispondevo correttamente a quanto mi veniva chiesto, ma non avevo alcuna strategia per conquistarla o colpirla in qualche modo. O meglio, una strategia ce l’avevo, la peggiore di tutte, considerati gli esiti personali ed il complotto generale. La sincerità.

“Una vacanza, solo una vacanza. Son stato a Valencia prima, vorrei visitare Barcellona (dopo questo passaggio lei si attiva per mettermi in contatto con degli amici di Barca senza alcun esito), ma se non riuscissi a trovare ospitalità lì probabilmente rientrerò, a Valencia o in Italia. Dovrei andar via da Madrid tra qualche giorno. Al momento non lavoro ma sto preparando un certo progetto, vorrei finire il mio secondo corso di studi prima di tornare a lavorare, sperando che sia possibile. Se mi piace la Spagna? Ho visto poco, bella e sospetta, come tutte le cose belle mi verrebbe da dire se questo non fosse un dialogo tra persone convenzionali. Non faccio sport da tanto. Ah, tu vai in palestra? Si vede, hai un corpo tonico e forte. Ascolto un po’ ogni genere di musica e se mi capita mi piace leggere anche. Quante lingue parlo? Nell’insieme direi cinque, alcune le invento, altre le ricordo appena, altre le dovrei recuperare completamente.”

“E circa il romanticismo degli italiani?”

“Cosa vuoi che ti dica? Se ti fa piacere sentirlo confermo la tua ipotesi con le parole e con i fatti. Non so quale sia lo standard spagnolo di romanticismo. Se si tratta di uccidere tori o elefanti no, gli italiani non son così romantici, troppo pigri anche rispetto a voi per esserlo. Se si tratta di comprar regali per qualcuno i cui occhi renderanno un regalo un spreco, beh, è già più probabile. Di base credo gli italiani siano più latin lover che dei soggetti “romantici” nello stile. Vivono di reputazioni, mentre le infangano.”

“Non capisco quello che dici. Ascolta, che programmi hai per il pomeriggio?”

“Non saprei, facciamo un giro a casa tua?”

“Per cosa?”

“Sottoporre alla prova dei fatti le voci sul romanticismo italiano”

“Non capisco molto di quel che dici ma mi affascina la vostra lingua”

“Si si, lo so, non io potrei mai piacere, ma il mio essere italiano. C’è tanto di quel razzismo di questo tipo nei miei confronti ogni volta che vado all’estero. Allora, andiamo da te?”

“Ma no, per chi mi hai preso?”

“Sei stata tu a dirmi dei tuoi tre amanti al mese. Siamo all’inizio d’agosto, magari potresti portarti avanti con la collezione”

“Ma dai…” ride lei

“E allora niente, dovrei comprare delle scarpette per un bambino”

“Per chi?”

“Un bambino che neanche conosco”

“E perché devi?”

“Una lunga storia. Voglio, più che devo. Solo che sembra non abbiate bambini in Spagna a giudicare dai negozi di scarpe per bambini che ho, o meglio, non ho visto in giro”

“Possiamo andare all’H&M, lì sicuramente ci saranno”

Andando via rimprovera degli zingari che si erano avvicinati ed urla ai camerieri di recuperare in fretta i nostri soldi prima che gli stessi glieli portino via. Anche il francese mi aveva messo in guardia a proposito degli zingari dicendo che in Francia mai si sarebbero avvicinati a dei soldi lasciati sul tavolo di un ristorante, ma in Spagna…Tutta questa diffidenza nei confronti dei Rom non fa che raddoppiare i miei sospetti ed i miei dubbi, anche in una giornata dedica alle attività di routine per un turista. Non mi fido dei Rom, né di chi mi mette in guardia nei loro confronti.

Andando verso uno degli empori di vestiti identici in ogni parte del mondo, come il sistema li vuole, incontriamo per strada bande organizzate di sciuscià messicani, residui post bellici e post coloniali. Mi guardano e mi invitano con gli occhi a sedermi per lustrarmi le scarpe, ma anche ad averli ai piedi dei mocassini il caldo madrileno scioglierebbe il lucido in meno di cento metri di trattini alternativamente tracciati sul marciapiede. E poi, con quella pelle così poco europea, zingara a suo modo, non me la sento di sedermi ad uno dei loro scranni. Nei loro occhi c’è come una rabbiosa minaccia. Tuttavia c’è anche, non so, come un timore nel parlare pubblicamente di quello di cui mi potrebbero parlare. Ma come fare lì, nella via più commerciale di Madrid, sotto gli occhi di tutti. Forse la mia paura è solo imbarazzo, forse dovrei avvinarmi, forse…

“Io d’inverno mi faccio lustrare le scarpe almeno una volta a settimana” dice J. “fanno un ottimo lavoro questi messicani”

“Se le vieni a lustrare una volta la settimana d’inverno, ed immagino tu ne abbia tante di scarpe essendo una donna, non fanno poi davvero un ottimo lavoro” provo a scherzarci su io, anche se in realtà penso “sicuramente il governo per cui mi ha detto di lavorare per una busta paga da fame le ha promesso un aumento il prossimo mese se riuscirà a compiere una certa qual missione o se sarà capace di strapparmi delle informazioni o quantomeno se per un giorno potrà tenermi lontano da quelli che, non so, magari, forse, potrebbero…”

Più della violenza, la cortesia mi è sospetta. In questo esatto momento, di descrizione e di cosa descritta, l’aiuto mi è più sgradito dell’ostacolo.

Ci vogliono un paio d’ore per trovare il negozio di scarpe. Poi lei va via, a raggiungere un’amica mi dirà.

Io rientro in ostello senza nessuno a cui regalare quello che tanta fatica mi è costato trovare.

Nella camera in cui son stato spostato c’è una ragazza tedesca che è in viaggio con la madre in sostituzione del compagno della stessa che ha paura di volare. Facciamo due chiacchere. Le chiedo se posso togliere i pantaloni e dormire un po’.

“Fa come se fossi a casa tua” mi dice sorridendo maliziosa come un’esperta Lolita prima di scendere sensualmente goffa nella sua arianità dal letto a castello sul quale era stesa a leggere. Le sue gambe lunghe potrebbero toccare il pavimento in due movimenti, ma lei, sporgendo in maniera involontariamente provocatoria e sensuale il suo piccolo culo rotondo e germanico poggia il suo piede da tagliaboschi nano su ogni gradino.

Ci proverei anche. Ma son stanco e per oggi con le donne ho chiuso.

Viaggio in Spagna 4 – Carmen

Bottellon Stadio Olimpico

 

Volevo far del bene ed ho fatto un errore. Mi sembra quasi che, in una prospettiva quasi sistemica, il bene tenda a nuocere a chi lo attua, senza necessariamente giovare a chi lo riceve, anzi, anche peggio, a volte è come se le conseguenze sul benefattore dipendano pressoché interamente dalla poca disponibilità del beneficiario ad accettare e rispettare che qualcuno gli si doni. Volevo fornire solo aiuto e mi son trovato ad creato solo dei problemi, eppure..

Non dovrei colpevolizzarmi per i miei sentimenti, per primo da me stesso, eppure..

Tutto è molto più chiaro di come lo espongo, il punto è che non lo espongo per com’è, ma per come lo ricordo, da un punto diverso da quello in cui queste esperienze si sono accumulate. Nei bar si parla una lingua così comune da infastidirmi, non c’è mare qui, più che gotiche le costruzioni sono medievali, la gente ride poco, parla ancora meno, legge, tanto, dagli iphone soprattutto, neanche un giornale aperto, o bambini liberi di fare quel che gli pare. Probabilmente è solo questo, è il mondo intorno, per quanto il mondo sia uguale, che mi modifica le percezioni e mi fa pensare a complotti o strategie finalizzate a chissà cosa.

Un esempio. I negri per strada. Qui Bologna: camminano liberi, ti si avvicinano, ti chiedono un caffè o si mettono a chiacchierare ossessivi come i loro jingle introduttivi, le loro filastrocche e le faccia tristi ricamate in faccia come se l’Africa che si portano dietro non fosse altro che desolazione. Qui Valencia: la prima impressione è che facessero delle corse con dei grossi sacchi in spalla, senza mai perdersi di vista, mentre giocano, correndo, a nascondino. Solo in un secondo tempo avrei capito che erano in realtà in fuga, come gazzelle inseguite da tigri in divisa. Eppure…

Eppure lì, per quanto limitati nelle loro attività, sorridono, delle loro fughe, dei loro giochi, delle loro chiacchere, poggiano di tanto in tanto i loro sacchi per terra, in un attimo li aprono, in un attimo li richiudono e tornano a correre. Qui, con le loro borse in spalla, quasi più stanchi se si mostrano allegri è più per marketing e mestiere che per allegrie spontanee. Probabilmente i negri assorbono meglio le energie che li circondano, in Spagna, come in Italia, come in Francia, come ovunque.

Se loro son sereni, perché io penso di essere assorbito in chissà quale piano più grande di me? Anche Calimero non si muoveva se non per giocare in strada. Io invece no, è come se a me ogni serenità o felicità fosse impedita, da me stesso se non da altri, eppure lì per lì molte delle cose che mi è capitato di vedere mi han fatto sorridere, m’han divertito, ma adesso, a ripensarci, quei momenti fugaci riesco a fatica a recuperarli.

Per lo meno sto avanzando delle ipotesi e questo è già un gran passo avanti: la prima ipotesi è che questa inquietudine dipenda da me, la seconda dal posto in cui mi trovo, la terza che ci sia un complotto generale che mi costringe a vivere e sentire le cose in un certo modo. Procediamo per esclusione.

Io non sono sempre lo stesso (biologicamente, psicologicamente, ecc.); a volte mi capita di sorridere di star bene addirittura, senza che la mia vita quotidiana sia molto diversa quel particolare giorno rispetto agli altri. Quindi, su di me non posso fondare una teoria, né trovare in me una causa o una giustificazione.

Seconda ipotesi: il posto in cui mi trovo in un determinato periodo della mia vita. Anche questa ipotesi ha i suoi limiti. Il primo è simile a quello precedente. Se me ne stessi in un posto in cui non potrei che essere felice sarebbe come essere condannato a starci, a tornare ad una nuova casa di grate e di muri, che accolgono si, ma non liberano. Se libertà e felicità han limiti, allora non sono. Una cosa o è sempre tutto ovunque o non è. Tra l’altro, mi capita anche qui di ricordare quei momenti e di essere ancora felice, di riviverli. Se evado un attimo da questa paranoia del complotto son quasi orgoglioso di quel che sono stato e di quel che sono stato capace di fare, dall’ospitalità ai bulgari alla fuga di ritorno in Italia, al mio farmi guida e traduttore. Mi son sentito quasi motore di quanto accadeva intorno a me, eppure, un retro-pensiero mi picchettava sulla nuca e mi diceva che “no, tu fai così perché devi far così. Ti è sembrato normale trovare dei polacchi a guidare un pullman dalla Spagna all’Italia? E la polizia? Speravi ti bloccasse a Barcellona? Volevi tu che ci fossero i bulgari a quel tavolo dopo aver fatto i biglietti? C’erano quando sei andato in autostazione? Ti sei chiesto come mai li hai trovati al ritorno? E perché c’è stato il furto tra di loro dopo che tu sei andato via?”

Ti auguravi di trovarli per strada, quasi all’alba, mentre rientravi ubriaco, la notte prima? Perché è allora che è cominciato tutto la notte prima. O no? Non resta che l’ipotesi del complotto, la più ovvia e la più difficile.

La sera prima, a cominciare dal tardo pomeriggio, di cose ne son successe tante e tutte, apparentemente, scollegate tra loro.

Fino alle dodici avevo tentato di trovare un posto per dormire a Barcellona, almeno un giorno, o quantomeno un posto dove depositare qualche ora le valigie, non per vedere la città o farmi rapire dai suoi incanti, ma per ragioni che al momento mi riesce difficile ricordare. Avevo speso ore a discutere del concetto di “emergenza” ed “urgenza” con dei tipi che avrebbero potuto semplicemente dirmi che non avevano modo di accogliermi, anziché perder tempo a giudicare la mia scarsa organizzazione del viaggio. Un viaggio organizzato, dopo questa nuova esperienza lo so, è, in fin dei conti, poco più di un breve trasloco.

Dopo aver salutato tutti quelli che avevo incontrato a Madrid, dove mi ero fermato per alcuni giorni, sperando di poter mantenere un qualunque contatto con loro, son salito in metro e ho isto un signore, sulla sessantina che vendeva fazzoletti e chiedeva degli spiccioli per avere un sostentamento durante la crisi. Non mi sembrava nessuno fosse raffreddato, ma molti sudavano e si sentiva. Se l’offerta del vecchio appariva inizialmente bizzarra nella prima prospettiva, nella seconda acquisiva un certo significato. Dico questo per dire che non tutto era strano o irragionevole come quanto fin qui narrato potrebbe far pensare. C’è stato un breve dibattito con un mio amico sull’illogicità ed anti-economicità dell’attività del venditore, ossia, sulla possibilità che non vendendo almeno due o tre pacchetti, ed avendo pagato il biglietto per salire in metro, il suo commercio avrebbe solo aggravato la sua condizione. In pochi secondi, l’apparente sensatezza che aveva rimpiazzato la stoltezza iniziale, veniva, nella mia analisi, nuovamente riportata nell’ambito dell’improbabile se non proprio dell’impossibile. Non c’era niente, fino ad ora che avesse la benché minima stabilità e ragione d’essere. Il mio amico, sceso insieme a lui dopo due fermata, aveva avanzato l’ipotesi che forse il signore sfruttava quelle fermate di metro che avrebbe comunque dovuto fare per rientrare a casa per provare a tirar su qualche centesimo, ma non appena il vecchio aveva abbandonato il mio vagone, subito l’ho rivisto comparire su quello successivo.

Dopo venti minuti sono sul bus.

I bus spagnoli sembrano salotti reali con poltrone in pelle ed offrono una temperatura mite, un senso di tranquillità durante il viaggio e collegamento ad internet. Chiedo se alla prima ed unica sosta posso recuperare il laptop per collegarmi durante la seconda parte del viaggio e l’autista acconsente. Accanto a me c’è una ragazza svizzera, bionda, che è lì da un mese per migliorare il suo spagnolo. Ha un bel seno e quel senso di alienità che hanno le nazioni senza mare, soprattutto quelle dall’indole neutrale. Scambiamo alcune parole, le chiedo se in qualche modo la stia disturbando e mi confessa che “no, non mi disturbi, solo che vorrei dormire un po’”. Provo ad insistere un attimo per incontrarla la sera, ma è distaccata (non capisco come sia possibile essere distaccati con tutto quello che sta succedendo a me e con tutti i tifoni che muovono la Spagna). Fingo di addormentarmi per incoraggiare il suo sonno e verificare se la sua prosperità non sia solo frutto di tecnologie speciali applicate all’abbigliamento intimo femminile o, al contrario, il frutto di un duro regime nazionale a base di precisione, banche e cioccolata. Non è stata una gran distrazione la Svizzera alla fine.

Ci fermiamo. È un autogrill, come molti in Spagna, un po’ spostato (almeno un paio di chilometri) dall’autostrada. Di fronte a me c’è un campo, leggermente ondulato, diviso in differente strisce di colore, dal giallo, al rosso, al verde, alla terra bruna. Recupero il mio laptop e salgo a bordo. Per alcuni minuti ho una connessione velocissima, dopo poche centinaia di metri scompare e torno ad avanzare due ipotesi: la prima, che la connessione che sfruttavo inizialmente fosse quella di un altro autobus che andava verso Salamanca; la seconda che quelli che seguono il mio viaggio e complottano contro di me, non vogliono che io, almeno durante gli spostamenti, comunichi con persone a me familiari via internet. Posso ancora usare il telefono, ma chiamare adesso potrebbe limitare la mia libertà decisionale nei momenti in cui ne avrò realmente bisogno.

Non so quanto gli spagnoli, polizia esclusa, facciano parte di questo complotto, perché il fatto che io sia stato lì e che ora mi trovi qui, come ho provato a dimostrare, può spiegarsi solo con questa ipotesi. Mi concedo di dedicare a questa gente alcune parole.

Flemma è una parola che è entrata nel dizionario italiano intorno al ‘600 per indicare lo stile di vita della gente di quella nazione, per le loro sieste (che trovo geniali per regolare, almeno nei paesi caldi, il ritmo lavorativo), per il loro modo di rapportarsi alle cose, per la loro disponibilità verso tutto e tutti. Parlo da turista perseguitato da un complotto, vorrei ricordarlo, eppure, l’impressione di aver esperito un ritmo di vita umano mi sta addosso come l’afa di Bologna in questi pochi giorni di transito.

“Sai perché ci sono meno incidenti in Germania che in Spagna?” mi han chiesto per poi rispondermi un attimo dopo: “Perché in Germania non hai un limite di velocità e all’occorrenza i tuoi riflessi son pronti a reagire, qui da noi, invece, abituati come siamo ad andar piano, alla prima frenata c’è un tamponamento”. Con questa premessa non me la son sentita di mettere in pericolo la mia vita e quella degli altri passeggeri, e per rispetto di quelle persone che sicuramente non erano a conoscenza di quanto si ordisse ai miei danni, ho evitato di dire all’autista di accendere il router. Credo la Spagna abbia apprezzato. Pochi chilometri dopo le lande colorate, quasi olandesi che non han bisogno di fiori, delle rupi con una voce quasi abruzzese e dei colori quasi dolomitici si sono imposti allo sguardo, rudi ed elegantissimi, per poi concedere all’occhio l’occhio della Cuenca, poco prima di tornare a Valencia. A tutto questo c’è da aggiungere che in terra iberica, anche a starsene lontani miglia, ovunque intuisci il mare.

Arrivo a Valencia. Anche qui un aeroporto, ma, a differenza di quello, questo, appena un chilometro fuori città, non ti invita ad andartene, ma ti accoglie quasi.

Ecco, in questo momento, così vivo da pensare ancora sia quel momento, tanto ha significato Valencia, son sereno. Non vedo complotti, ma un autobus pieno di migranti, spagnoli, turisti, me, che si spostano, ciascuno per il proprio destino con sono un mezzo in comune. Sono un po’ nervoso, si, perché da ore scrivo alla mia amica per avvisarla del mio arrivo e non ricevo risposta. Una volta lì l’aspetto disteso per una mezzora su una panchina perso tra il cielo e alcuni pensieri, diversi da quelli di cui qui parlo, ma di cui quasi non mi importa o che quasi non ricordo o che, ancor meno di quelli sul complotto, capisco.

Alla fine suono a casa sua, entro. Che sia anche lei parte del complotto? Mi spiega di non aver ricevuto alcun messaggio, mi dice di avermi scritto ed io tampoco* ho avuto da lei alcuna informazione. Lei è di corsa. Cinema all’aperto. Tre euro e cinquanta. Penso sia un po’ caro per stare all’aperto e rinuncio e poi forse son stanco. Dovrei mangiare qualcosa. Lei esce. Io aspetto. Sereno. Poi comincio a fare il turista, a scoprire la città da solo, come ho sempre fatto.

C’è un posto che conosco, probabilmente gestito da italiani che spero sia aperto ed, invece devo cercare oltre. Mi ritrovo in un bar, chiedo se la cucina è aperta ed ordino una tostata* e delle patatas bravas con chorrizo**. Son lì da solo che bevo e fumo. Comincio a mangiare e le tre ragazze sedute al tavolo con un ragazzo, che poi scoprirò essere gay, mi guardano. Sembra tutto vada per il meglio. Io faccio il vago, penso a nutrirmi, non voglio disturbare e spero che questo mi atteggiamento non sembri quello di uno che non vuol essere disturbato.

Dopo un po’ una delle tre, violenta nella sua sensuale bellezza da ballerina di flamenco, mi si avvicina e mi chiede cosa stia mangiando, spiegando che con loro il servizio non è stato eccezionale, che han dovuto cucinar da se la loro comida***.

Mi invitano al loro tavolo. Una di loro mi fissa tutto il tempo. Ridiamo del fatto che io parli francese e che per farlo mi basta “pensare in italiano, poi pensare di essere stupido e parlare francese”. La danzatrice dice che userà la stessa frase per gli inglesi. Racconto di me, del mio progetto sulle lingue, dei miei viaggi, delle lingue che parlo, mi parlan di loro, confrontiamo Italia e Spagna. Dopo un po’ ridiamo del bar che ad ogni minuto peggiora nel servizio. Lascio a tutti loro delle informazioni, il mio nome e col pezzo che avanza riservo un tavolo a Juan Carlos. Cerchiamo un altro bar, andiamo a ballare. Ci provo con quella che mi guarda fisso, le lascio i miei contatti, mi dice che ha un ragazzo e chiedo se allora ci si può rivedere tutti insieme l’indomani.

Come vedete son stato anche bene. Ci son stati momenti in cui al complotto davvero non ci pensavo. Quelli in cui il complotto si è evoluto, articolato, ha assunto dinamiche e dimensioni fuori dalla mia portata.

La discoteca dove ci troviamo offre due attrazioni fondamentali: un gruppo di bellissime finlandesi che ballano ed un tipo, capelli bianchi, leggermente in sovrappeso per la sua pancia gonfia di birra e mojito, che ci prova, in maniera goffa e volgare, offensiva per le vittime, divertente per chiunque altro si trovi a passare.

Le finlandesi son probabilmente lì in gita da un paese vicino con residenti esclusivamente provenienti dalla loro nazione e con un sindaco finlandese. Una piccola colonia non ufficiale all’altro capo dell’Europa a cui, a suo tempo Zapatero ha espresso il tributo di un benvenuto. Escludo che in questa storia che racconto c’entri la mafia finlandese. Escludo che esista una mafia finlandese.

Comunque, alla fine gli spagnoli van via, non so se offesi dalla mia avance ad una di loro o dal mio essermi messi a parlare con degli italiani o solo perché, come m’han detto l’indomani dovevano andare a lavorare. Vacillo tra la seconda ipotesi (forse anche loro son coinvolti, forse non vogliono che parli con qualcuno che è escluso da questo piano) e la terza. Mi fido. Resto lì, guardo ancora un po’ le sirene scandinave, odoranti di Russia ed esco. Do un’occhiata ad un altro paio di locali poi mi fermo su una panchina rotonda e tutt’intorno a me sento solo degli italiani. Toscani, emiliani, abruzzesi. Una tipa, rumena probabilmente, a cui chiedo se ci siano altri locali ad ingresso libero in giro mi dice che non devo aspettarmi granché se non voglio pagare. Così mi fermo lì vedo cosa succede in giro. In un attimo ricomincia la messa in scena, il piano, il circo delle azioni messe lì per distrarmi. Anche degli italiani non ci si può fidare o forse si dovrebbe trarre esperienza da quello che da lì a poco succederà ad uno di loro.

Sembran tutti tranquilli; piccoli bottellon illegali, dei bengalesi, come a Bologna a dare in giro birra in barattolo, ma nessuna minaccia. Valencia è abilissima a dissimulare il pericolo. In un momento un negro ne aggredisce un altro. In meno di un momento la polizia li blocca entrambi, soprattutto quello aggredito. La tensione non sale. Polizia e africani si scambiano delle domande, i neri mostrano i documenti. Tutto si risolve con una multa o poco più.

Un tipo italiano, particolarmente ubriaco, gioca a fare il saluto romano ogni volta che passano dei tassisti. I tassisti, questi muli che trasportano turisti e sconosciuti in giro, ci mettono un attimo a diventar capre. Noi si ride, si fuma. Un amico dell’italiano ubriaco chiede del fumo ai venditori di birra. Provo a dirgli che è offensivo per loro sentirsi rivolgere una simile domanda. Lui non fa caso alle mie parole e continua. Anche se fossi in pericolo, gli italiani sarebbero gli ultimi su cui potrei contare. Intanto quello più ubriaco, che nel frattempo ho scoperto essere figlio di un regista di commediole all’italiana a strusciarsi con una che chiaramente sotto i 50 un sentimento protorumeno non lo avrebbe dimostrato mai, provando a convincerla a farsela dare gratis, accettando in fine di trattare sui 40. Nel frattempo dei nerboruti amici della signorina, seduti placidi accanto, gli hanno sfilato l’iphone.

“Sarebbe un ottimo soggetto per un film di tuo padre, no?”

Loro continuano a provarci con delle ragazze emiliane. Io vado via. A ripensarci ora, questo giorno è un continuo andar via. Per strada, vicino alla porta de Dos Serranos, un tipo africano mi chiede se io parli inglese e francese. Gli rispondo di si. Mi chiede di spiegare a due bulgari (e qui il cerchio si chiude) che lui può affittare una casa con tre stanze a quattrocento euro; glielo spiego, ma l’africano è convinto che non traduca bene fino a quando non gli dico che i ragazzi non vogliono spendere più di 160 euro per un mese.

Son cose che succedono, no? Perché ci continuo a pensare? È la vita.

 

 

Viaggio in Spagna 3 – Bulgari in casa (double trouble)

intro

 

 

A svegliarmi è l’angoscia, senza scuotermi, quasi appoggiandosi lievemente sul bordo del mio giaciglio, sorridendo materna in attesa che i miei occhi si aprano, paziente e silenziosa, con in faccia un pallore tenue da tendine che la rischiara, imbellettandole un viso ora grigio ora cadaverico, delle prime luci del mattino. C’è tanta tranquillità nella sua persona, nessuna ansia, niente che la disturbi o che la aiuti a disturbare. Mi entra lentamente nel naso come un odore di pane tostato e di mimosa mentre respira.

L’angoscia è l’assenza di felicità, l’unica compagnia possibile in una stanza altrimenti vuota. La tristezza, il dolore, la disperazione, a loro modo, sono ancora felicità, un intuirla, uno sperarci, un crederci, ma l’angoscia, quella che mi fa scrivere in questo modo, che mi fa andare in cucina a preparare il caffè per poter fumare la prima sigaretta della giornata, che ti fa stare in casa, che si serve di te per esprimere la propria aggressività, che mi fa scrivere di cose passate che non sono più e quindi forse mai sono state, è semplicemente un’assenza tale, che la tristezza sarebbe già un appiglio.

Di angosce ce ne son tante, quasi tutte con volto di donna. Vecchie, logore, insoddisfatte e giovani, invisibili, esperte, professionali. Mentre scrivo con me ce ne sono almeno tre, quella che scrive, quella che pensa e ricorda e quella del momento ricordato, la prima di miele, la seconda di cera, la terza di cristallo e limone.

Quella che scrive la vedete, la seconda, invece, è confusa e confonde con i miei discorsi anche me che vorrei trovare un ordine, una sequenza, un’armonia in quanto ricordo. Quello che penso e quello che ricordo diventano una strana unità che si modifica reciprocamente, senza possibilità di scindere idee e memorie.

Penso all’autobus polacco dirottato, alla polizia spagnola, a Barcellona, ai miei anni in Polonia, ricordo i dettagli, gli errori, le giustificazioni mentre provo a separare gli elementi e a tenerli tutti insieme. L’angoscia è nel pensare che ci sia un piano, un destino, un caos che in qualche modo possa essere regolato, chiarito, spiegato perché non si ripeta e che tutto torni sereno e piano. Se ne sta lì lei, serena, seduta sul letto, con i miei occhi che più la riconoscono più la temono e più la temono più vi si arrendono. È la sua quiete che quasi mi fa urlare, la coscienza che qualunque cosa io possa fare o dire, lei non cambierà d’atteggiamento o d’espressione. Mi incoraggia anche per un po’, consolandomi nel convincermi che forse, in qualche modo, anch’io possa aver ragione. Sembra dirmi: “Ma si, sicuramente devi solo pensarci un po’ su, ci deve essere una spiegazione a tutto questo, devi solo star calmo se vuoi che tutto sia più chiaro, prova ad collegare questo elemento a quest’altro, che ne so? La fuga dalla Polonia alla polizia spagnola, o i tipi che fumavano in corriera con il tuo rientro in Italia. Semplice no?”. Così mi parla, e più mi parla più mi inquieta e più mi inquieta più, stancandomi, mi calma.

Alla fine vince, senza che ci si senta in torto ma senza neanche il desiderio di aver ragione e così accetti che sia sempre tutto un caso, che non c’è da cercarci un piano dietro o della cattiveria o della bontà altrimenti si rischia, anche a non essere angosciati, di sprecare la vita dietro idee e pensieri inutili, poco pratici.

Inoltre ci sono angosce, come quella di cristallo e limone, che quasi divertono, che alleggeriscono gli addii, che distraggono da qualcosa che potrebbe anche essere peggio. Ma si, son solo cose su cui favoleggio io; non ho fatto del male a nessuno, è tutto solo un gran caos, non c’è chi abbia tempo da perdere su cose del genere se non me, che è anche giusto che cominci ad abbandonare simili fantasie.

La terza angoscia, tra l’altro, quella che da un lato potrebbe aver determinato questi miei pensieri era si tale già all’origine, ma le bevute per attenuare la mestizia della partenza, nel primo pomeriggio dell’ultimo giorno a Valencia, tutta l’allegria e la gioia che avevo accumulato nei giorni precedenti, la sensazione d’Africa e mare ad ogni passo, il voler rendere a chicchessia quello che avevo ricevuto da infiniti chiunque quasi sconosciuti, mi avevano in qualche modo reso affascinante e divertente una storia che di per se aveva tutti i numeri per non esserlo affatto.

Immaginatemi felice, puro sole, che mi avvio lentamente, dopo un primo accenno di fretta al risveglio, verso la stazione degli autobus a Valencia, sperando ad ogni passo, di far tardi per acquistare l’ultimo biglietto disponibile, contento di questa illusione e preoccupato dalle possibili conseguenze della stessa, ossia l’impossibilità, quantomeno temporanea, di abbandonare la Spagna. Ora immaginatemi venti minuti dopo con un biglietto in tasca, triste della mia prossima partenza e felice di tutto quanto nel frattempo ho vissuto, del sorriso che non smetteva di sorridere, delle bevute e delle persone incontrate, di un incanto di secoli per le strade vecchio di millenni, libero, tra felicità e dispiacere. Pronto a far saltare tutto, a buttar via il biglietto, a rischiare. Un biglietto in tasca è una possibilità, uno tirato in strada sono almeno due.

Non c’è stato un momento a Valencia in cui abbia percepito la possibilità del benché minimo pericolo, se non quello di una noia da una felicità senza fine. Lì la gente ti parla, saluta, è disponibile, allegra, ti accoglie ed invita, che siano di Valencia o solo turisti di passaggio per le vacanze estive. Corre, ovunque, sonnacchiosa, con ritmi ed orari che trovi solo qui, o che almeno solo qui mi è riuscito di trovare, persone che passeggiano alle quattro del mattino, o alle sei del pomeriggio vanno a lavorare o ancora sedute fuori sulle terrazze a mezzogiorno a far colazione, come quei due sulla mia strada, mentre rientro dall’amica con cui trascorrerò le ultime ore, che mi salutano…ricambio il saluto, proseguo, poi, come per provare a riconoscerli mi volto indietro e torno sui miei passi.

Erano due bulgari, B. e N., che avevo incontrato la notte precedente. Ho ancora del tempo ed allora mi metto a sedere con loro. Prendo un caffè giusto per una pausa tra le mille birre bevute.

N. è un ragazzo sui ventiquattro anni, capelli nati dal gel, biondo, una camicia aperta su un petto glabro ed un grande crocefisso di ferro e di rame. Sorride spesso, di un sorriso tonto più che divertito e compiaciuto. Solo lui dei due parla inglese, neanche tanto bene. Mi racconta che è in Spagna col suo amico a cercar lavoro, che di lì a poche ore lui andrà a Barcellona, mentre l’altro N. si fermerà a Valencia e cercherà qualcosa lì.

N. ha lineamenti più slavi rispetto a B. che sembra quasi tedesco. N. ha tatuaggi su quasi tutto il corpo, immagini sacre, tribali, animali vari; ha i capelli corti, lo sguardo forte, un pizzetto delineato. Sembra irritarsi ad ogni parola ed ha bisogno di B. per poter comunicare con me non parlando nessuna lingua, tranne la sua.

B, sta al telefono, cercando probabilmente di soldi o un aiuto per prendere l’autobus. Suggerisco a N. di provare a chiedere al supermercato russo che è lì a pochi metri per vedere se possono aiutarlo col lavoro visto che non poter comunicare con nessuno potrebbe essere un problema.

 

supermercato

B. mi dice che cercano casa ed allora, per pura generosità, per aiutare sia loro che una mia amica che affitta delle stanze ci scambiamo i numeri dicendogli di non promettergli niente, ma di poter provare e che verso le cinque mi sarei fatto sentire.

Ne parlo con la mia amica. Le informazioni che le do son quelle di cui dispongo anch’io, ma mentre gliele elenco mi chiedo, ad ogni punto se sia una buona idea parlargliene: solo uno dei due parla inglese, cercano lavoro, si fermano per certo una settimana poi forse un mese, li ho conosciuti ubriachi da ubriaco per strada la notte precedente, abbigliamento, modo di fare. Lei valuta tutto, anche il mese d’affitto che eventualmente riuscirebbe ad incassare. Mi dice che per lei va bene, che posso chiamarli. Ci vogliono un’ora e non so quanti messaggi per spiegargli come raggiungere casa.

Mentre gli aspettiamo, nascondendoci reciprocamente delle preoccupazioni minimali, beviamo un po’, ascoltiamo della musica, parliamo di noi parlando delle canzoni, ridiamo di quanto sarà difficile spiegargli che non devono chiudere la porta per non bloccare chi è dentro e di come aprirla al momento di entrare. Arrivano che son giù ad aspettare da venti minuti e sono io a dovergli urlare per dirgli di salire.

 

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Io me ne sto in disparte, sempre attento ad ascoltare che non succeda niente di male a lei (ed in un secondo tempo a me). Ho un timore sottile che trascuro parlando su internet con degli amici; il cane che è in casa, Calimero, è sempre steso su due cuscini gettati a terra, quasi in attesa che gli mettano la ciotola sotto il muso per mangiare, immobile, salvo alcuni movimenti della testa o piccoli spostamenti, come un bambino sereno che cerchi la posizione migliore per dormire. Fosse in strada digrignerebbe i denti, correrebbe, ma in casa è solo un monumento dal pelo curato e nero alla pigrizia ed alla noia.

Vado a prendere le mie cose dalla stanza dove o dormito fino alla notte prima e le sposto per liberare i letti ai ragazzi, aiuto la mia amica a chiarire le ultime cose. Arrivati al pagamento B. tira fuori una banconota da cento euro. La preoccupazione bussa alle porte dell’angoscia per vedere se in casa, l’angoscia la lascia entrare. La mia amica chiede che li vadano a cambiare perché non ha resto.

Loro si allontanano e per alcuni minuti io e lei non parliamo, poi entrambi attacchiamo direttamente a riconsiderare i nostri dubbi, soprattutto in funzione del denaro. Ed anche qui qualcosa non torna.

I due, per quanto provenienti da un paese che nell’immaginario italiano è solo povertà e aggressioni, si son dimostrati soprattutto goffi, molto educati, quasi timorosi a chiedere quanto gli spettasse come ospiti paganti, stupidi in un certo modo, cortesi nel salutar sempre, nel dire “per favore”, concedendo la precedenza ad andare in bagno o interrogandosi per sapere se non stiano disturbando troppo. Averli in casa non preoccupa, è uscire che fa nascere sospetti e piccole paure. Son vestiti così bene che con quello che spendono loro a comprare dei jeans ed una camicia io ci riempirei tre valigie, hanno iphone modernissimi, B. soprattutto ha la pelle curatissima, un portafoglio con banconote di grosso taglio (che cambieranno al supermercato sotto casa comprando un Gatorade) e poi escono in continuazione. Non hanno neanche poggiato le valigie che sono usciti per cambiare i soldi. E fin qui va bene. Poi sono usciti, una volta ricevute le chiavi per una ventina di minuti e son rientrati. Una terza volta, per comprare una scheda telefonica spagnola da un negozio all’angolo son stati via quasi due ore. Il pericolo è meglio averlo in casa, sotto controllo, male che vada attacca ed esplode, ma quando è fuori dalle mura, è lì che non si riesce a star tranquilli a non sapere cosa fa, chi incontra, quali sono i suoi movimenti e le sue intenzioni. L’angoscia, al contrario della paura, ha di quei trucchi che rendono più pericolose le situazioni più lontane.

Dopo qualche ora arriva anche il coinquilino della mia amica. In tre saremo più tranquilli e ci illuderemo di essere più sicuri. In fondo non avevano la faccia da criminali. Dediti a qualche piccolo reato, forse, spaccio di marijuana, borseggio, piccoli furti, ma in casa c’è ben poco da rubare. La povertà, a suo modo, è la prima forma di sicurezza.

I bulgari, intanto, rientrano, fanno la doccia, si lavano nel profumo, cambiano i vestiti e…restano in casa. Mi sento un po’ responsabile per questa situazione, ma alla mia amica ho detto tu, è stata lei alla fine a prendere una decisione, io potevo semplicemente dire ai due che non c’era posto in casa, ma lei mi ha detto di chiamarli e di farli venire. Ma è la poca sobrietà a farmi sentire l’angoscia, la gente è buona, non han fatto altro, tutti, che volermi bene da quando sono arrivato. Non succederà niente. Si, forse sono un po’ rozzi nella loro eleganza da mostrare, ma son brave persone. Chiedo a lei ed al suo coinquilino se vogliono uscire e mi rispondono di no.

Io faccio la doccia, esco, vado a comprare delle cartoline, un altro paio di birre e delle foto al soffitto di un bar dove son stato una delle prime sere. Faccio un po’ il turista.

b

a

Torno a casa dopo un paio d’ore. Chiudo la valigia, dormo un po’, fino alle 8. Nella notte non è successo niente mi racconta la mia amica mentre beviamo un caffè assieme prima di accompagnarmi all’autostazione.

Tanta angoscia inutile alla fine. Non ci son complotti, cattiverie, congiure contro di me, di alcun tipo. È solo un malessere personale che probabilmente mi porta ad immaginare troppo, a temere cose che non esistono, a rovinarmi una vita che tutto sommato potrebbe esser felice.

Ma si, posso dormir sereno, il mondo è in pace…

A svegliarmi non è questa volta l’angoscia, ma un messaggio della mia amica dove scrive: “B. ha detto che lascia la casa perché N. gli ha rubato tutti i soldi e non sa dove andarlo a cercare. Ha detto che usciva. Ma dove andrà a bere e mangiare senza soldi? Dove andrà a dormire? Strani no?”