Il cuore grande dei ranocchi

Perchè la gente dovrebbe scendere in piazza

se oramai son tutti in osteria o all’applestore?

Se nessuno va più in Piazza Verdi

per i baccanali di vetro e le cellulose bruciate

perchè dovrebbero andarci

solo per incazzarsi e rompere i coglioni?

Attraverso Via Zamboni

con mio fratello in una barella che sembra una lettiga

e che sorride a medici e preti

superando le torri nere nel cuore delle strade di Natale

e gli chiede se stan bene

mentre loro chiedono l’autorizzazione a me

che rinuncio a qualunque anima per salvarlo

e che ho pochi mesi di vita

e tanto offro a te soltanto

per l’ultima volta

da dar la responsabilità ad un Dio in ritardo,

che ora denuncio

perchè essendo sue le colpe

il perdono non sarebbe che un povero rimborso

Viaggio in Spagna 4 – Carmen

Bottellon Stadio Olimpico

 

Volevo far del bene ed ho fatto un errore. Mi sembra quasi che, in una prospettiva quasi sistemica, il bene tenda a nuocere a chi lo attua, senza necessariamente giovare a chi lo riceve, anzi, anche peggio, a volte è come se le conseguenze sul benefattore dipendano pressoché interamente dalla poca disponibilità del beneficiario ad accettare e rispettare che qualcuno gli si doni. Volevo fornire solo aiuto e mi son trovato ad creato solo dei problemi, eppure..

Non dovrei colpevolizzarmi per i miei sentimenti, per primo da me stesso, eppure..

Tutto è molto più chiaro di come lo espongo, il punto è che non lo espongo per com’è, ma per come lo ricordo, da un punto diverso da quello in cui queste esperienze si sono accumulate. Nei bar si parla una lingua così comune da infastidirmi, non c’è mare qui, più che gotiche le costruzioni sono medievali, la gente ride poco, parla ancora meno, legge, tanto, dagli iphone soprattutto, neanche un giornale aperto, o bambini liberi di fare quel che gli pare. Probabilmente è solo questo, è il mondo intorno, per quanto il mondo sia uguale, che mi modifica le percezioni e mi fa pensare a complotti o strategie finalizzate a chissà cosa.

Un esempio. I negri per strada. Qui Bologna: camminano liberi, ti si avvicinano, ti chiedono un caffè o si mettono a chiacchierare ossessivi come i loro jingle introduttivi, le loro filastrocche e le faccia tristi ricamate in faccia come se l’Africa che si portano dietro non fosse altro che desolazione. Qui Valencia: la prima impressione è che facessero delle corse con dei grossi sacchi in spalla, senza mai perdersi di vista, mentre giocano, correndo, a nascondino. Solo in un secondo tempo avrei capito che erano in realtà in fuga, come gazzelle inseguite da tigri in divisa. Eppure…

Eppure lì, per quanto limitati nelle loro attività, sorridono, delle loro fughe, dei loro giochi, delle loro chiacchere, poggiano di tanto in tanto i loro sacchi per terra, in un attimo li aprono, in un attimo li richiudono e tornano a correre. Qui, con le loro borse in spalla, quasi più stanchi se si mostrano allegri è più per marketing e mestiere che per allegrie spontanee. Probabilmente i negri assorbono meglio le energie che li circondano, in Spagna, come in Italia, come in Francia, come ovunque.

Se loro son sereni, perché io penso di essere assorbito in chissà quale piano più grande di me? Anche Calimero non si muoveva se non per giocare in strada. Io invece no, è come se a me ogni serenità o felicità fosse impedita, da me stesso se non da altri, eppure lì per lì molte delle cose che mi è capitato di vedere mi han fatto sorridere, m’han divertito, ma adesso, a ripensarci, quei momenti fugaci riesco a fatica a recuperarli.

Per lo meno sto avanzando delle ipotesi e questo è già un gran passo avanti: la prima ipotesi è che questa inquietudine dipenda da me, la seconda dal posto in cui mi trovo, la terza che ci sia un complotto generale che mi costringe a vivere e sentire le cose in un certo modo. Procediamo per esclusione.

Io non sono sempre lo stesso (biologicamente, psicologicamente, ecc.); a volte mi capita di sorridere di star bene addirittura, senza che la mia vita quotidiana sia molto diversa quel particolare giorno rispetto agli altri. Quindi, su di me non posso fondare una teoria, né trovare in me una causa o una giustificazione.

Seconda ipotesi: il posto in cui mi trovo in un determinato periodo della mia vita. Anche questa ipotesi ha i suoi limiti. Il primo è simile a quello precedente. Se me ne stessi in un posto in cui non potrei che essere felice sarebbe come essere condannato a starci, a tornare ad una nuova casa di grate e di muri, che accolgono si, ma non liberano. Se libertà e felicità han limiti, allora non sono. Una cosa o è sempre tutto ovunque o non è. Tra l’altro, mi capita anche qui di ricordare quei momenti e di essere ancora felice, di riviverli. Se evado un attimo da questa paranoia del complotto son quasi orgoglioso di quel che sono stato e di quel che sono stato capace di fare, dall’ospitalità ai bulgari alla fuga di ritorno in Italia, al mio farmi guida e traduttore. Mi son sentito quasi motore di quanto accadeva intorno a me, eppure, un retro-pensiero mi picchettava sulla nuca e mi diceva che “no, tu fai così perché devi far così. Ti è sembrato normale trovare dei polacchi a guidare un pullman dalla Spagna all’Italia? E la polizia? Speravi ti bloccasse a Barcellona? Volevi tu che ci fossero i bulgari a quel tavolo dopo aver fatto i biglietti? C’erano quando sei andato in autostazione? Ti sei chiesto come mai li hai trovati al ritorno? E perché c’è stato il furto tra di loro dopo che tu sei andato via?”

Ti auguravi di trovarli per strada, quasi all’alba, mentre rientravi ubriaco, la notte prima? Perché è allora che è cominciato tutto la notte prima. O no? Non resta che l’ipotesi del complotto, la più ovvia e la più difficile.

La sera prima, a cominciare dal tardo pomeriggio, di cose ne son successe tante e tutte, apparentemente, scollegate tra loro.

Fino alle dodici avevo tentato di trovare un posto per dormire a Barcellona, almeno un giorno, o quantomeno un posto dove depositare qualche ora le valigie, non per vedere la città o farmi rapire dai suoi incanti, ma per ragioni che al momento mi riesce difficile ricordare. Avevo speso ore a discutere del concetto di “emergenza” ed “urgenza” con dei tipi che avrebbero potuto semplicemente dirmi che non avevano modo di accogliermi, anziché perder tempo a giudicare la mia scarsa organizzazione del viaggio. Un viaggio organizzato, dopo questa nuova esperienza lo so, è, in fin dei conti, poco più di un breve trasloco.

Dopo aver salutato tutti quelli che avevo incontrato a Madrid, dove mi ero fermato per alcuni giorni, sperando di poter mantenere un qualunque contatto con loro, son salito in metro e ho isto un signore, sulla sessantina che vendeva fazzoletti e chiedeva degli spiccioli per avere un sostentamento durante la crisi. Non mi sembrava nessuno fosse raffreddato, ma molti sudavano e si sentiva. Se l’offerta del vecchio appariva inizialmente bizzarra nella prima prospettiva, nella seconda acquisiva un certo significato. Dico questo per dire che non tutto era strano o irragionevole come quanto fin qui narrato potrebbe far pensare. C’è stato un breve dibattito con un mio amico sull’illogicità ed anti-economicità dell’attività del venditore, ossia, sulla possibilità che non vendendo almeno due o tre pacchetti, ed avendo pagato il biglietto per salire in metro, il suo commercio avrebbe solo aggravato la sua condizione. In pochi secondi, l’apparente sensatezza che aveva rimpiazzato la stoltezza iniziale, veniva, nella mia analisi, nuovamente riportata nell’ambito dell’improbabile se non proprio dell’impossibile. Non c’era niente, fino ad ora che avesse la benché minima stabilità e ragione d’essere. Il mio amico, sceso insieme a lui dopo due fermata, aveva avanzato l’ipotesi che forse il signore sfruttava quelle fermate di metro che avrebbe comunque dovuto fare per rientrare a casa per provare a tirar su qualche centesimo, ma non appena il vecchio aveva abbandonato il mio vagone, subito l’ho rivisto comparire su quello successivo.

Dopo venti minuti sono sul bus.

I bus spagnoli sembrano salotti reali con poltrone in pelle ed offrono una temperatura mite, un senso di tranquillità durante il viaggio e collegamento ad internet. Chiedo se alla prima ed unica sosta posso recuperare il laptop per collegarmi durante la seconda parte del viaggio e l’autista acconsente. Accanto a me c’è una ragazza svizzera, bionda, che è lì da un mese per migliorare il suo spagnolo. Ha un bel seno e quel senso di alienità che hanno le nazioni senza mare, soprattutto quelle dall’indole neutrale. Scambiamo alcune parole, le chiedo se in qualche modo la stia disturbando e mi confessa che “no, non mi disturbi, solo che vorrei dormire un po’”. Provo ad insistere un attimo per incontrarla la sera, ma è distaccata (non capisco come sia possibile essere distaccati con tutto quello che sta succedendo a me e con tutti i tifoni che muovono la Spagna). Fingo di addormentarmi per incoraggiare il suo sonno e verificare se la sua prosperità non sia solo frutto di tecnologie speciali applicate all’abbigliamento intimo femminile o, al contrario, il frutto di un duro regime nazionale a base di precisione, banche e cioccolata. Non è stata una gran distrazione la Svizzera alla fine.

Ci fermiamo. È un autogrill, come molti in Spagna, un po’ spostato (almeno un paio di chilometri) dall’autostrada. Di fronte a me c’è un campo, leggermente ondulato, diviso in differente strisce di colore, dal giallo, al rosso, al verde, alla terra bruna. Recupero il mio laptop e salgo a bordo. Per alcuni minuti ho una connessione velocissima, dopo poche centinaia di metri scompare e torno ad avanzare due ipotesi: la prima, che la connessione che sfruttavo inizialmente fosse quella di un altro autobus che andava verso Salamanca; la seconda che quelli che seguono il mio viaggio e complottano contro di me, non vogliono che io, almeno durante gli spostamenti, comunichi con persone a me familiari via internet. Posso ancora usare il telefono, ma chiamare adesso potrebbe limitare la mia libertà decisionale nei momenti in cui ne avrò realmente bisogno.

Non so quanto gli spagnoli, polizia esclusa, facciano parte di questo complotto, perché il fatto che io sia stato lì e che ora mi trovi qui, come ho provato a dimostrare, può spiegarsi solo con questa ipotesi. Mi concedo di dedicare a questa gente alcune parole.

Flemma è una parola che è entrata nel dizionario italiano intorno al ‘600 per indicare lo stile di vita della gente di quella nazione, per le loro sieste (che trovo geniali per regolare, almeno nei paesi caldi, il ritmo lavorativo), per il loro modo di rapportarsi alle cose, per la loro disponibilità verso tutto e tutti. Parlo da turista perseguitato da un complotto, vorrei ricordarlo, eppure, l’impressione di aver esperito un ritmo di vita umano mi sta addosso come l’afa di Bologna in questi pochi giorni di transito.

“Sai perché ci sono meno incidenti in Germania che in Spagna?” mi han chiesto per poi rispondermi un attimo dopo: “Perché in Germania non hai un limite di velocità e all’occorrenza i tuoi riflessi son pronti a reagire, qui da noi, invece, abituati come siamo ad andar piano, alla prima frenata c’è un tamponamento”. Con questa premessa non me la son sentita di mettere in pericolo la mia vita e quella degli altri passeggeri, e per rispetto di quelle persone che sicuramente non erano a conoscenza di quanto si ordisse ai miei danni, ho evitato di dire all’autista di accendere il router. Credo la Spagna abbia apprezzato. Pochi chilometri dopo le lande colorate, quasi olandesi che non han bisogno di fiori, delle rupi con una voce quasi abruzzese e dei colori quasi dolomitici si sono imposti allo sguardo, rudi ed elegantissimi, per poi concedere all’occhio l’occhio della Cuenca, poco prima di tornare a Valencia. A tutto questo c’è da aggiungere che in terra iberica, anche a starsene lontani miglia, ovunque intuisci il mare.

Arrivo a Valencia. Anche qui un aeroporto, ma, a differenza di quello, questo, appena un chilometro fuori città, non ti invita ad andartene, ma ti accoglie quasi.

Ecco, in questo momento, così vivo da pensare ancora sia quel momento, tanto ha significato Valencia, son sereno. Non vedo complotti, ma un autobus pieno di migranti, spagnoli, turisti, me, che si spostano, ciascuno per il proprio destino con sono un mezzo in comune. Sono un po’ nervoso, si, perché da ore scrivo alla mia amica per avvisarla del mio arrivo e non ricevo risposta. Una volta lì l’aspetto disteso per una mezzora su una panchina perso tra il cielo e alcuni pensieri, diversi da quelli di cui qui parlo, ma di cui quasi non mi importa o che quasi non ricordo o che, ancor meno di quelli sul complotto, capisco.

Alla fine suono a casa sua, entro. Che sia anche lei parte del complotto? Mi spiega di non aver ricevuto alcun messaggio, mi dice di avermi scritto ed io tampoco* ho avuto da lei alcuna informazione. Lei è di corsa. Cinema all’aperto. Tre euro e cinquanta. Penso sia un po’ caro per stare all’aperto e rinuncio e poi forse son stanco. Dovrei mangiare qualcosa. Lei esce. Io aspetto. Sereno. Poi comincio a fare il turista, a scoprire la città da solo, come ho sempre fatto.

C’è un posto che conosco, probabilmente gestito da italiani che spero sia aperto ed, invece devo cercare oltre. Mi ritrovo in un bar, chiedo se la cucina è aperta ed ordino una tostata* e delle patatas bravas con chorrizo**. Son lì da solo che bevo e fumo. Comincio a mangiare e le tre ragazze sedute al tavolo con un ragazzo, che poi scoprirò essere gay, mi guardano. Sembra tutto vada per il meglio. Io faccio il vago, penso a nutrirmi, non voglio disturbare e spero che questo mi atteggiamento non sembri quello di uno che non vuol essere disturbato.

Dopo un po’ una delle tre, violenta nella sua sensuale bellezza da ballerina di flamenco, mi si avvicina e mi chiede cosa stia mangiando, spiegando che con loro il servizio non è stato eccezionale, che han dovuto cucinar da se la loro comida***.

Mi invitano al loro tavolo. Una di loro mi fissa tutto il tempo. Ridiamo del fatto che io parli francese e che per farlo mi basta “pensare in italiano, poi pensare di essere stupido e parlare francese”. La danzatrice dice che userà la stessa frase per gli inglesi. Racconto di me, del mio progetto sulle lingue, dei miei viaggi, delle lingue che parlo, mi parlan di loro, confrontiamo Italia e Spagna. Dopo un po’ ridiamo del bar che ad ogni minuto peggiora nel servizio. Lascio a tutti loro delle informazioni, il mio nome e col pezzo che avanza riservo un tavolo a Juan Carlos. Cerchiamo un altro bar, andiamo a ballare. Ci provo con quella che mi guarda fisso, le lascio i miei contatti, mi dice che ha un ragazzo e chiedo se allora ci si può rivedere tutti insieme l’indomani.

Come vedete son stato anche bene. Ci son stati momenti in cui al complotto davvero non ci pensavo. Quelli in cui il complotto si è evoluto, articolato, ha assunto dinamiche e dimensioni fuori dalla mia portata.

La discoteca dove ci troviamo offre due attrazioni fondamentali: un gruppo di bellissime finlandesi che ballano ed un tipo, capelli bianchi, leggermente in sovrappeso per la sua pancia gonfia di birra e mojito, che ci prova, in maniera goffa e volgare, offensiva per le vittime, divertente per chiunque altro si trovi a passare.

Le finlandesi son probabilmente lì in gita da un paese vicino con residenti esclusivamente provenienti dalla loro nazione e con un sindaco finlandese. Una piccola colonia non ufficiale all’altro capo dell’Europa a cui, a suo tempo Zapatero ha espresso il tributo di un benvenuto. Escludo che in questa storia che racconto c’entri la mafia finlandese. Escludo che esista una mafia finlandese.

Comunque, alla fine gli spagnoli van via, non so se offesi dalla mia avance ad una di loro o dal mio essermi messi a parlare con degli italiani o solo perché, come m’han detto l’indomani dovevano andare a lavorare. Vacillo tra la seconda ipotesi (forse anche loro son coinvolti, forse non vogliono che parli con qualcuno che è escluso da questo piano) e la terza. Mi fido. Resto lì, guardo ancora un po’ le sirene scandinave, odoranti di Russia ed esco. Do un’occhiata ad un altro paio di locali poi mi fermo su una panchina rotonda e tutt’intorno a me sento solo degli italiani. Toscani, emiliani, abruzzesi. Una tipa, rumena probabilmente, a cui chiedo se ci siano altri locali ad ingresso libero in giro mi dice che non devo aspettarmi granché se non voglio pagare. Così mi fermo lì vedo cosa succede in giro. In un attimo ricomincia la messa in scena, il piano, il circo delle azioni messe lì per distrarmi. Anche degli italiani non ci si può fidare o forse si dovrebbe trarre esperienza da quello che da lì a poco succederà ad uno di loro.

Sembran tutti tranquilli; piccoli bottellon illegali, dei bengalesi, come a Bologna a dare in giro birra in barattolo, ma nessuna minaccia. Valencia è abilissima a dissimulare il pericolo. In un momento un negro ne aggredisce un altro. In meno di un momento la polizia li blocca entrambi, soprattutto quello aggredito. La tensione non sale. Polizia e africani si scambiano delle domande, i neri mostrano i documenti. Tutto si risolve con una multa o poco più.

Un tipo italiano, particolarmente ubriaco, gioca a fare il saluto romano ogni volta che passano dei tassisti. I tassisti, questi muli che trasportano turisti e sconosciuti in giro, ci mettono un attimo a diventar capre. Noi si ride, si fuma. Un amico dell’italiano ubriaco chiede del fumo ai venditori di birra. Provo a dirgli che è offensivo per loro sentirsi rivolgere una simile domanda. Lui non fa caso alle mie parole e continua. Anche se fossi in pericolo, gli italiani sarebbero gli ultimi su cui potrei contare. Intanto quello più ubriaco, che nel frattempo ho scoperto essere figlio di un regista di commediole all’italiana a strusciarsi con una che chiaramente sotto i 50 un sentimento protorumeno non lo avrebbe dimostrato mai, provando a convincerla a farsela dare gratis, accettando in fine di trattare sui 40. Nel frattempo dei nerboruti amici della signorina, seduti placidi accanto, gli hanno sfilato l’iphone.

“Sarebbe un ottimo soggetto per un film di tuo padre, no?”

Loro continuano a provarci con delle ragazze emiliane. Io vado via. A ripensarci ora, questo giorno è un continuo andar via. Per strada, vicino alla porta de Dos Serranos, un tipo africano mi chiede se io parli inglese e francese. Gli rispondo di si. Mi chiede di spiegare a due bulgari (e qui il cerchio si chiude) che lui può affittare una casa con tre stanze a quattrocento euro; glielo spiego, ma l’africano è convinto che non traduca bene fino a quando non gli dico che i ragazzi non vogliono spendere più di 160 euro per un mese.

Son cose che succedono, no? Perché ci continuo a pensare? È la vita.

 

 

Un’idea da poco – reloaded

Scrivo giusto per il piacere di scrivere. Scrivo senza disporre di dati o informazioni necessarie per giustificare in qualche modo le mie idee. Scrivo per liberarmi di conflitti mentali e di idee allucinate; quanto scrivo non deve essere ritenuto possibile o realisticamente realizzabile. È una di quelle idee come voler governare il mondo, raggiungere la luna, risorgere dalla morte.

Già prima di scrivere questo articolo, che riprende dei punti già espressi in quello di qualche giorno fa, ho avuto modo di discutere delle idee di cui dirò tra breve, con alcuni amici, ammettendo in prima persona il carattere utopico e quasi fantastico delle idee esposte, appoggiato in questo, nonostante un mio delirante accalorarmi nella difesa dell’indifendibile, dalle idee di quanti discorrevano con me in merito a ciò.

Così ho deciso di pensarci un po’ su prima di esprimere qualcosa di eccessivamente ridicolo ed ho lasciato trascorrere un giorno, rielaborando nella mia mente il contenuto del mio pensiero, trascorrendo allo stesso tempo la giornata nel modo più leggero e spontaneo possibile. È così successo che mi sia messo a discutere con la mia famiglia del più e del meno, arrivando a litigare alla fine con i miei genitori. Il fatto che io al momento non abbia un lavoro, che viva lontano da loro, che spesso loro abbiano dei problemi, nonostante una condizione economica non estremamente difficile, nel sostenere il mio desiderio di vita nel modo in cui provo a viverla.

Per quanto la mia mente sia spesso in molti luoghi differenti della terra con il tempo ho cominciato a prendere coscienza del fatto che la mia persona si trovi, di volta in volta, in un punto geograficamente ben definito della terra e così, mi trovo spesso ad avere coscienza che il mondo esiste e che io esisto al mondo, per la precisione sono a Cracovia in questo periodo della mia vita. So quanto accade in Italia attraverso internet, so quanto accade qua perché lo vedo e ne ho esperienza ogni giorno, non so quanto accada a persone che sono lontane da me pochi metri o centinaia di chilometri per quanto la mia mente ne segua i passi che li fa muovere di minuto in minuto, mentre io dormo e loro camminano, mentre entrambi ci muoviamo in direzioni che, per quanto perpendicolari, non si incontreranno mai.

Saranno meno di mille le persone di cui ricordo il nome, la faccia, il modo di fare, più o meno la voce eppure loro non esistono realmente per me. So che esistono, ma in nessun modo la mia vita può influenzare la loro, così come la loro può influenzare la mia, neanche con le persone sedute accanto a me mentre scrivo non si possono CONCRETAMENTE stabilire delle relazioni che abbiano una qualunque influenza reciproca. Ciascuno vive la sua vita e la sua sola.

Quanto scritto finora è qualcosa di molto astratto, me ne rendo conto, proverò quindi a dare sostanza a quanto sostenuto. Quanto volevo significare con quanto scritto finora può essere riassunto fondamentalmente in due punti:

–          La nostra vita si svolge nei contesti vitali a noi più prossimi

–          In nessun modo la nostra vita può influenzare (o dovrebbe essere influenzata da) realtà umane o non umane, più o meno corporee, che con noi non abbiano alcun contatto di realtà.

Quanto espresso sopra converge verso un’idea politica che, come ho detto precedentemente, è stata già in parte esposta nell’articolo “Will of being naive”, ossia un progetto che faccia muovere la società mondiale, per quanto la mia proposta sia relativa prevalentemente all’Italia, verso la nascita ed il progressivo sviluppo di cittàstato. Proverò ad esporre di seguito le modalità attraverso cui pervenire a questo punto, quali ragioni rendono, a mio parere preferibile questa alternativa a quella della società odierna e alle sue strutture attuali, quali vantaggi può produrre, quali strutture ne dovrebbero rendere possibile l’attuazione, accennando, in chiusura dell’articolo, alle ragioni “umane” che ne sono alla base o ai vantaggi che ne possono derivare.

Partiamo da quanto è avvenuto in Italia negli ultimi giorni e negli ultimi mesi. Gli avvenimenti politici di maggiore rilevanza che hanno caratterizzato il periodo che stiamo vivendo nella mia nazione, sono legati ad un ritrovato interesse per la politica da parte dei cittadini, che si son trasformati da sostenitori di questa o quella parte politica in attori direttamente impegnati nelle decisioni dello Stato. Mi riferisco ai referendum che in primavera hanno impedito la privatizzazione dell’acqua pubblica, bloccato la costruzione di centrali nucleari sul suolo italiano e quello per l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (che il governo Berlusconi aveva in un certo modo cancellato con la LEGGE  7 aprile 2010, n. 51). Precedentemente Beppe Grillo, comico italiano da qualche anno impegnato nell’organizzazione di un movimento politico per il rinnovamento della politica nel mio paese, aveva raccolto le 50.000 firme necessarie per una proposta di legge che limitasse l’eleggibilità di ogni candidato a due legislature, l’espulsione dei parlamenti di condannati in via definitiva e la nomina degli eletti da parte degli elettori e non dai vertici di un partito. La proposta di legge di iniziativa popolare in questione da 3 anni presentata in Parlamento non è mai stata presa in considerazione e stanno per scadere i termini entro i quali la sua discussione ed eventuale approvazione dovrebbe aver luogo, rendendo irrilevante in tal modo, la volontà di migliaia di cittadini del mio paese. Per quanto riguarda l’ultimo dei punti della proposta di legge summenzionata, durante la scorsa estate è partita una nuova raccolta delle firme, per l’abolizione della legge n. 270 del 21 dicembre 2005, al fine di consentire ai cittadini la nomina diretta dei propri candidati. Sarebbero bastate 500.000 perché venisse istituito l’istituto referendario; in poche settimane le firme raccolte sono state quasi 1.300.000.

L’indifferenza con cui la volontà (ed il sentimento di una nazione) viene trattata negli ultimi tempi dal Parlamento italiano mi porta ad avanzare una semplice proposta di legge che consistente nella richiesta di un progressivo trasferimento delle prerogative e dei poteri del governo centrale ai singoli parlamenti regionali e successivamente da questi a dei governi provinciali. Non esporrò i singoli articoli che dovrebbero costituire il testo della legge, ma semplicemente proverò a delineare i contenuti generali dello stesso.

So, come dicevo nei primi paragrafi di questo articolo, che probabilmente quanto andrò esponendo verrà tacciato di eccessivo astrattismo, per questo motivo consiglio la lettura dell’art.1 (“La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.”) e dell’articolo 71 (“Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli”) della Costituzione italiana.

Stabilità la sovranità popolare e la possibilità da parte degli elettori di avanzare proposte legislative al proprio Parlamento dalla Costituzione (per quanto sempre più irrilevante sembra sia diventato quanto deciso dai nostri padri costituenti), la mia proposta è che ci sia un controllo costante, qualora venissero raccolte le firme necessarie, sui nostri rappresentanti politici ai quali sarà richiesto di discutere, (eventualmente) migliorare (senza snaturare) il testo della legge ed approvarlo entro un periodo di 12 mesi (estendibili a 18 qualora le congiunture interne o internazionali ponessero la necessità oggettiva di occuparsi in maniera prioritaria di altri aspetti della vita pubblica). La mancata approvazione della legge proposta dai cittadini da parte del Parlamento sancirebbe un’inadempienza (l’ennesima) da parte dei parlamentari del trattato costituzionale, nonché il disconoscimento della sovranità popolare ed in ultima istanza dell’accordo sociale su cui si fonda la Repubblica, con l’implicita conseguenza della non legittimità ai governanti di governare e della delegittimazione dello Stato stesso.

Mancando in questo modo il rispetto dovuto alla legge dei rappresentanti politici, caduto il contratto sociale, i cittadini, ritengo, nel rispetto delle fondamentali norme del vivere societarie, potrebbero ritenersi autorizzati ad agire in totale autonomia rispetto alle direttive legislative (in materia di tassazione ad esempio, obblighi di leva, ecc.) rispettando invece le norme del codice penale e delle leggi che altrimenti trasformerebbero la società in un universo di barbarie. In Italia i rappresentanti del popolo, in deroga a qualunque norma, hanno in spregio ogni tipo di legge; se questi devono essere considerati i rappresentanti della società italiana credo sia normale che la realtà stessa si confaccia alla sua immagine politica, oppure, in alternativa, considerando il mio popolo migliore delle istituzioni che lo rappresentano, muovere progressivamente, attraverso processi politici più lenti, ma comunque ugualmente praticabili, verso un’indipendenza politica dalle proprie istituzioni.

Per non porre la questione termini di un aut aut nei confronti della classe politica si potrebbero discutere termini più idonei alla realizzazione di questa delega. Inoltre per non arrivare all’autoritarismo del popoloed agire in conformità con i principi democratici, la legge proposta, discussa ed approvata dal Parlamento dovrebbe successivamente essere ripresentata al popolo, perché con un referendum approvativo con quorum e maggioranza elevati (65-75%) dovrebbe confermare quanto stabilito dalla legge. Lo stesso dovrebbe poi avvenire a livello regionale dopo che le politiche di delega necessarie avessero trasferito i poteri stabiliti dallo Stato alle Regioni, affinché queste trasferiscano poi il loro potere alle singole provincie (nel caso di regioni più piccole per superficie e popolazione come il Molise e la Valle d’Aosta la delega, qualora non ci fossero richieste differenti da parte dei valdostani o dei molisani, potrebbe fermarsi al livello regionale).

Ipotizziamo ora che le fasi sopra descritte si siano concluse con il positivo superamento dei vari passaggi e che debba aver luogo soltanto il passaggio materiale delle funzioni dallo Stato alle Regioni. In una prima fase sarà necessario lasciare allo Stato tutti i poteri, passandoli poi alle Regioni in maniera progressiva, come sabbia che scenda da un bulbo più grande a venti più piccoli. In questo periodo di transizione (che potrebbe ipoteticamente durare 5 anni, periodo durante il quale un governo temporaneo fortemente rappresentativo delle varie realtà territoriali si occuperebbe di alcuni aspetti di rilevanza pubblica), alcuni settori potrebbero essere mantenuti sotto il controllo dello Stato. Questi settori dovrebbero essere:

–          La ricerca e l’istruzione (gli elementi più meritevoli potrebbero mantenere ruoli di una certa rilevanza a livello nazionale anche successivamente, supportando lo sviluppo della nazione).

–          L’energia (pur consentendo delle deleghe alle singole regioni per la produzione di energie rinnovabili o perché i singoli cittadini si facciano produttori di energia, nel rispetto delle regioni vicine e dell’interesse nazionale)

–          L’identità

–          La difesa (in un primo periodo potrebbe essere necessario mantenere un esercito, progressivamente più ridotto in numero e mansioni, per la difesa della nazione; il personale militare dovrebbe essere progressivamente ridotto ed i suoi elementi dovrebbero essere impiegati per il mantenimento dell’ordine pubblico)

–          Il sistema delle telecomunicazioni per le connessioni postali tra i vari centri e per l’informazione circa l’andamento del processo in atto (per quanto questo secondo aspetto possa essere delegato alla rete)

–          La moneta (per quanto si potrebbe valutare in un secondo tempo la possibilità di consentire ai singoli centri di coniare la propria valuta o di superare il sistema monetario)

Lo Stato si farebbe così garante del processo da me ipotizzato nei primi tempi e rappresentando allo stesso tempo la garanzia concreta della tenuta delle strutture da attivare per il conseguimento dell’obiettivo. In ultima istanza potrebbe anche essere considerato come il rifugio cui ritornare qualora questo esperimento politico non funzionasse. Un elemento fondamentale della mia proposta è, infatti, la reversibilità dell’intero processo.

La mia proposta, in fin dei conti, si muove nella stessa direzione di quella degli attuali legislatori con la differenza che implicherebbe la progressiva scomparsa dello Stato centrale, un’estensione del numero dei poteri al momento delegati ai vari presidi territoriali ed un accelerazione del processo (quello del federalismo fiscali auspicato da tanti ad esempio) già in atto.

Alcuni dei vantaggi della mia proposta potrebbero essere:

–          Un più diretto controllo dei governanti sui governati ed un più incisivo controllo dei governati sui governanti; se da un lato è evidente che è più facile esercitare il potere su un gruppo ristretto di individui da parte dei superiori, dall’altro altrettanto rilevante sarebbe il feedback che gli organi politici riceverebbero dai cittadini, essendo più semplice trovare un accordo tra pochi di quanto non sia possibile trovarlo tra molti.

–          La politica economica gestita da una città (attraverso organi ed istituti già sperimentati in passato e successivamente abbandonati e di cui dirò tra breve) rappresenterebbe un più intimo legame con il territorio di quanto non lo sarebbe quella gestita a livello di nazione rendendo gli adattamenti necessari alle varie circostanze politiche ed economiche di più facile e rapida attuazione

–          I costi ed i tempi della burocrazia verrebbero ridotti non essendo necessari molti dei numerosi collegamenti con uffici centrali come quelli esistenti al momento a livello statale

–          Un più attivo coinvolgimento di associazioni ed individui nella vita della comunità e del suo sviluppo

–          Una maggiore apertura e dinamicità del mercato del lavoro

–          Una più equa distribuzione delle risorse

–          Una maggiore dinamicità degli scambi e la possibilità (a voler esagerare nell’utopismo di quanto proposto) di stabilire accordi tali che allo scambio monetario si sostituisca quello in natura (pratiche del genere sono già in atto in alcune città europee e quindi l’irrealizzabilità della stessa è tutta da provare)

–          La possibilità di confrontarsi con l’umano in relazione con quello che una persona è e non in relazione a quanto ha (ed una società equa e giusta dovrebbe avere questo come primo tra i suoi compiti)

Gli istituti attraverso i quali organizzare la vita collettiva potrebbero essere:

–          I falansteri. La città potrebbe essere organizzata come una rete di collegamento tra i vari falansteri, strutture all’interno dei quali dovrebbero essere eliminate i limiti organizzativi e sociali che il modello di Fourier presentava. Il totale coinvolgimento della popolazione nell’attività produttiva (coinvolgimento che diventerebbe spontaneo qualora si volesse attuare una economia redistributiva  di tipo comunistico) consentirebbe una riduzione delle ore lavorative per i singoli lavoratori favorendo in questo modo la possibilità per i singoli di dedicarsi ad altre attività, per poter concretamente rimuovere in questo modo “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, come recita l’articolo 3 della nostra attuale Costituzione.

–          Le corporazioni. Per quanto suggerirei di incentrare l’attività produttiva delle singole città su merci  la cui maggiore qualità sia universalmente riconosciuta (salumi in Emilia, formaggi a Parma, vini nelle varie province, vetro a Venezia, tessuti a Firenze, macchine a Torino, ecc.) si dovrebbe organizzare socialmente il lavoro nelle singole comunità (aspetto questo di cui mi occuperò probabilmente in un articolo successivo)

–          Soviet: dovendo superare i limiti del falansterio secondo la formulazione di Fourier, l’introduzione dei soviet, che insieme alle corporazioni possono anche svolgere la funzione di portatori di istanze politiche a livello cittadino, consentirebbe una gestione democratica interna alla singola attività agita dalla collettività

Gli istituti sopra presentati possono e saranno sicuramente considerati anacronistici ed il loro potenziali utilizzo destinato al fallimento come si ritiene sia accaduto nei secoli scorsi. Per quanto possa dirmi parzialmente d’accordo con tale interpretazione nel caso delle corporazioni, la cui reciproca conflittualità ha sicuramente portato ad un declino delle loro strutture (per quanto parlerei più che altro di trasformazione e scomparsa delle stesse per le mutate condizioni storiche e sociali), altrettanto non mi sento di fare nel caso dei Soviet e dei Falansteri, organismi potenzialmente funzionanti all’interno di società che ne favoriscano l’attuazione. Dichiarare che uno stile di vita, una determinata organizzazione del lavoro, un sistema politico sociale e politico siano fallimentari solo in funzione dei suoi esiti storici credo costituisca un giudizio di valore arbitrariamente imposto da un paradigma che, nel scontro/confronto, si sia rivelato temporaneamente vincente, come ad esempio quello che nei decenni scorsi ha contrapposto capitalismo e comunismo.

In quest’ultima parte dell’articolo proverò a dimostrare come secondo me questo principio possa essere considerato vero solo in funzione dei suoi esiti storici, ossia che il sistema liberalista e capitalista si siano andati affermando vittoriosamente su quello comunista, ma che nei fatti non sembra la tenuta del capitalismo stesso sia di se possibile nella realtà.

Se Smith poteva sostenere più di 3 secoli fa che l’iniziativa privata avrebbe portato all’arricchimento del singolo e successivamente a quello dell’intera società, oggi è lampante che, se all’accumulazione di ricchezza da parte di uno non corrisponde la redistribuzione delle stesse tra tanti, in ultima istanza si otterrà una polarizzazione delle ricchezze stesse nelle mani di pochi e la messa in stato di miseria di tutti gli altri.

La recente crisi economica mondiale prova ulteriormente la tendenza al fallimento del sistema politico ed economico nel quale ci troviamo a vivere, estendendo la povertà a popolazioni un tempo benestanti e portando di fatto, per quanto lo si voglia o possa negare, alla trasformazione dei cittadini in sudditi per i quali spesso l’esistenza non è un vivere la vita, ma un sopravvivere alla stessa.

Quanto un tempo costituiva un indice di ricchezza non può essere più considerato tale e la delega di beni, risorse, scelte a banche, istituzioni monetarie o governi si è progressivamente rivelata essere una volontaria rinuncia alle stesse.

La mia proposta consiste nel percorrere una strada troppo presto abbandonata in passato, forse a causa di una certa immaturità nella gestione delle scelte operate, forse perché era necessario attraversare guerre e crisi delle dimensioni di quelle attraversate dall’umanità negli ultimi 200 anni. Si tratta di offrire un’alternativa all’attuale sistema di vita, provare a razionalizzare e conferire alla vita una dimensione che le sia più consona, magari rinunciando a desideri troppo grandi ed imparando a vivere, ma pienamente, di quel che si ha. Da sempre la storia dell’uomo è stata incentrata al desiderio di crescere, di estendere i propri domini, di conquistare nuove terre, come  se poi mai alcuno sia riuscito in realtà ad imporre davvero il proprio volere su più di 3 o 4 persone alla volta (ad essere ottimisti) e se mai piede umano sia riuscito a coprire una superficie maggiore di quanto grande non fosse la sua pianta. Disponiamo di risorse quantitativamente numerose in misura tale da poter correre il rischio di frenare, parcheggiare la macchina e provare a camminare per vedere se l’ingorgo in cui ci stiamo imbottigliano non possa essere più facilmente superato camminando un po’. Han visto più cose Marco Polo e Gengis Khan a piedi o a cavallo di quante chiunque di noi ne potrà mai vedere. Considerando che il traffico è fermo, si dovrebbe solo scendere e camminare un po’ e se fosse saggio e necessario, se il flusso riprendesse, si potrebbe sempre tornare in macchina e mettersi a guidare.

 

P.S. Quanto esposto finora è da considerare solo come ipotesi di un esperimento che potrebbe tranquillamente essere esteso o annullato in funzione dei risultati che riuscisse a conseguire.  Gli aspetti concreti di quanto esposto non sono materia dell’articolo non essendo io un legislatore né un economista per poter affermare con precisione come operare al fine di conseguire gli obiettivi suggeriti. Immagino che di strumenti atti a tali scopi e di gruppi che già praticano uno stile di vita basato sui principi presentati ce ne siano numerosi (personalmente ne conosco alcuni), si tratterebbe solo di estendere queste idee a contesti più ampli o di coordinare le varie esperienze nella direzione proposta. Se invece questo articolo fosse considerato solo un insieme di principi folli, che dire? Ho solo espresso la mia follia, godetevi la realtà.

 

P.P.S. Credo alcune idee siano ancora condivisibili per quanto non credo l’animo umano potrà mai portare alla realizzazione di un piano simile

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