Viaggio in Spagna 4 – Carmen

Bottellon Stadio Olimpico

 

Volevo far del bene ed ho fatto un errore. Mi sembra quasi che, in una prospettiva quasi sistemica, il bene tenda a nuocere a chi lo attua, senza necessariamente giovare a chi lo riceve, anzi, anche peggio, a volte è come se le conseguenze sul benefattore dipendano pressoché interamente dalla poca disponibilità del beneficiario ad accettare e rispettare che qualcuno gli si doni. Volevo fornire solo aiuto e mi son trovato ad creato solo dei problemi, eppure..

Non dovrei colpevolizzarmi per i miei sentimenti, per primo da me stesso, eppure..

Tutto è molto più chiaro di come lo espongo, il punto è che non lo espongo per com’è, ma per come lo ricordo, da un punto diverso da quello in cui queste esperienze si sono accumulate. Nei bar si parla una lingua così comune da infastidirmi, non c’è mare qui, più che gotiche le costruzioni sono medievali, la gente ride poco, parla ancora meno, legge, tanto, dagli iphone soprattutto, neanche un giornale aperto, o bambini liberi di fare quel che gli pare. Probabilmente è solo questo, è il mondo intorno, per quanto il mondo sia uguale, che mi modifica le percezioni e mi fa pensare a complotti o strategie finalizzate a chissà cosa.

Un esempio. I negri per strada. Qui Bologna: camminano liberi, ti si avvicinano, ti chiedono un caffè o si mettono a chiacchierare ossessivi come i loro jingle introduttivi, le loro filastrocche e le faccia tristi ricamate in faccia come se l’Africa che si portano dietro non fosse altro che desolazione. Qui Valencia: la prima impressione è che facessero delle corse con dei grossi sacchi in spalla, senza mai perdersi di vista, mentre giocano, correndo, a nascondino. Solo in un secondo tempo avrei capito che erano in realtà in fuga, come gazzelle inseguite da tigri in divisa. Eppure…

Eppure lì, per quanto limitati nelle loro attività, sorridono, delle loro fughe, dei loro giochi, delle loro chiacchere, poggiano di tanto in tanto i loro sacchi per terra, in un attimo li aprono, in un attimo li richiudono e tornano a correre. Qui, con le loro borse in spalla, quasi più stanchi se si mostrano allegri è più per marketing e mestiere che per allegrie spontanee. Probabilmente i negri assorbono meglio le energie che li circondano, in Spagna, come in Italia, come in Francia, come ovunque.

Se loro son sereni, perché io penso di essere assorbito in chissà quale piano più grande di me? Anche Calimero non si muoveva se non per giocare in strada. Io invece no, è come se a me ogni serenità o felicità fosse impedita, da me stesso se non da altri, eppure lì per lì molte delle cose che mi è capitato di vedere mi han fatto sorridere, m’han divertito, ma adesso, a ripensarci, quei momenti fugaci riesco a fatica a recuperarli.

Per lo meno sto avanzando delle ipotesi e questo è già un gran passo avanti: la prima ipotesi è che questa inquietudine dipenda da me, la seconda dal posto in cui mi trovo, la terza che ci sia un complotto generale che mi costringe a vivere e sentire le cose in un certo modo. Procediamo per esclusione.

Io non sono sempre lo stesso (biologicamente, psicologicamente, ecc.); a volte mi capita di sorridere di star bene addirittura, senza che la mia vita quotidiana sia molto diversa quel particolare giorno rispetto agli altri. Quindi, su di me non posso fondare una teoria, né trovare in me una causa o una giustificazione.

Seconda ipotesi: il posto in cui mi trovo in un determinato periodo della mia vita. Anche questa ipotesi ha i suoi limiti. Il primo è simile a quello precedente. Se me ne stessi in un posto in cui non potrei che essere felice sarebbe come essere condannato a starci, a tornare ad una nuova casa di grate e di muri, che accolgono si, ma non liberano. Se libertà e felicità han limiti, allora non sono. Una cosa o è sempre tutto ovunque o non è. Tra l’altro, mi capita anche qui di ricordare quei momenti e di essere ancora felice, di riviverli. Se evado un attimo da questa paranoia del complotto son quasi orgoglioso di quel che sono stato e di quel che sono stato capace di fare, dall’ospitalità ai bulgari alla fuga di ritorno in Italia, al mio farmi guida e traduttore. Mi son sentito quasi motore di quanto accadeva intorno a me, eppure, un retro-pensiero mi picchettava sulla nuca e mi diceva che “no, tu fai così perché devi far così. Ti è sembrato normale trovare dei polacchi a guidare un pullman dalla Spagna all’Italia? E la polizia? Speravi ti bloccasse a Barcellona? Volevi tu che ci fossero i bulgari a quel tavolo dopo aver fatto i biglietti? C’erano quando sei andato in autostazione? Ti sei chiesto come mai li hai trovati al ritorno? E perché c’è stato il furto tra di loro dopo che tu sei andato via?”

Ti auguravi di trovarli per strada, quasi all’alba, mentre rientravi ubriaco, la notte prima? Perché è allora che è cominciato tutto la notte prima. O no? Non resta che l’ipotesi del complotto, la più ovvia e la più difficile.

La sera prima, a cominciare dal tardo pomeriggio, di cose ne son successe tante e tutte, apparentemente, scollegate tra loro.

Fino alle dodici avevo tentato di trovare un posto per dormire a Barcellona, almeno un giorno, o quantomeno un posto dove depositare qualche ora le valigie, non per vedere la città o farmi rapire dai suoi incanti, ma per ragioni che al momento mi riesce difficile ricordare. Avevo speso ore a discutere del concetto di “emergenza” ed “urgenza” con dei tipi che avrebbero potuto semplicemente dirmi che non avevano modo di accogliermi, anziché perder tempo a giudicare la mia scarsa organizzazione del viaggio. Un viaggio organizzato, dopo questa nuova esperienza lo so, è, in fin dei conti, poco più di un breve trasloco.

Dopo aver salutato tutti quelli che avevo incontrato a Madrid, dove mi ero fermato per alcuni giorni, sperando di poter mantenere un qualunque contatto con loro, son salito in metro e ho isto un signore, sulla sessantina che vendeva fazzoletti e chiedeva degli spiccioli per avere un sostentamento durante la crisi. Non mi sembrava nessuno fosse raffreddato, ma molti sudavano e si sentiva. Se l’offerta del vecchio appariva inizialmente bizzarra nella prima prospettiva, nella seconda acquisiva un certo significato. Dico questo per dire che non tutto era strano o irragionevole come quanto fin qui narrato potrebbe far pensare. C’è stato un breve dibattito con un mio amico sull’illogicità ed anti-economicità dell’attività del venditore, ossia, sulla possibilità che non vendendo almeno due o tre pacchetti, ed avendo pagato il biglietto per salire in metro, il suo commercio avrebbe solo aggravato la sua condizione. In pochi secondi, l’apparente sensatezza che aveva rimpiazzato la stoltezza iniziale, veniva, nella mia analisi, nuovamente riportata nell’ambito dell’improbabile se non proprio dell’impossibile. Non c’era niente, fino ad ora che avesse la benché minima stabilità e ragione d’essere. Il mio amico, sceso insieme a lui dopo due fermata, aveva avanzato l’ipotesi che forse il signore sfruttava quelle fermate di metro che avrebbe comunque dovuto fare per rientrare a casa per provare a tirar su qualche centesimo, ma non appena il vecchio aveva abbandonato il mio vagone, subito l’ho rivisto comparire su quello successivo.

Dopo venti minuti sono sul bus.

I bus spagnoli sembrano salotti reali con poltrone in pelle ed offrono una temperatura mite, un senso di tranquillità durante il viaggio e collegamento ad internet. Chiedo se alla prima ed unica sosta posso recuperare il laptop per collegarmi durante la seconda parte del viaggio e l’autista acconsente. Accanto a me c’è una ragazza svizzera, bionda, che è lì da un mese per migliorare il suo spagnolo. Ha un bel seno e quel senso di alienità che hanno le nazioni senza mare, soprattutto quelle dall’indole neutrale. Scambiamo alcune parole, le chiedo se in qualche modo la stia disturbando e mi confessa che “no, non mi disturbi, solo che vorrei dormire un po’”. Provo ad insistere un attimo per incontrarla la sera, ma è distaccata (non capisco come sia possibile essere distaccati con tutto quello che sta succedendo a me e con tutti i tifoni che muovono la Spagna). Fingo di addormentarmi per incoraggiare il suo sonno e verificare se la sua prosperità non sia solo frutto di tecnologie speciali applicate all’abbigliamento intimo femminile o, al contrario, il frutto di un duro regime nazionale a base di precisione, banche e cioccolata. Non è stata una gran distrazione la Svizzera alla fine.

Ci fermiamo. È un autogrill, come molti in Spagna, un po’ spostato (almeno un paio di chilometri) dall’autostrada. Di fronte a me c’è un campo, leggermente ondulato, diviso in differente strisce di colore, dal giallo, al rosso, al verde, alla terra bruna. Recupero il mio laptop e salgo a bordo. Per alcuni minuti ho una connessione velocissima, dopo poche centinaia di metri scompare e torno ad avanzare due ipotesi: la prima, che la connessione che sfruttavo inizialmente fosse quella di un altro autobus che andava verso Salamanca; la seconda che quelli che seguono il mio viaggio e complottano contro di me, non vogliono che io, almeno durante gli spostamenti, comunichi con persone a me familiari via internet. Posso ancora usare il telefono, ma chiamare adesso potrebbe limitare la mia libertà decisionale nei momenti in cui ne avrò realmente bisogno.

Non so quanto gli spagnoli, polizia esclusa, facciano parte di questo complotto, perché il fatto che io sia stato lì e che ora mi trovi qui, come ho provato a dimostrare, può spiegarsi solo con questa ipotesi. Mi concedo di dedicare a questa gente alcune parole.

Flemma è una parola che è entrata nel dizionario italiano intorno al ‘600 per indicare lo stile di vita della gente di quella nazione, per le loro sieste (che trovo geniali per regolare, almeno nei paesi caldi, il ritmo lavorativo), per il loro modo di rapportarsi alle cose, per la loro disponibilità verso tutto e tutti. Parlo da turista perseguitato da un complotto, vorrei ricordarlo, eppure, l’impressione di aver esperito un ritmo di vita umano mi sta addosso come l’afa di Bologna in questi pochi giorni di transito.

“Sai perché ci sono meno incidenti in Germania che in Spagna?” mi han chiesto per poi rispondermi un attimo dopo: “Perché in Germania non hai un limite di velocità e all’occorrenza i tuoi riflessi son pronti a reagire, qui da noi, invece, abituati come siamo ad andar piano, alla prima frenata c’è un tamponamento”. Con questa premessa non me la son sentita di mettere in pericolo la mia vita e quella degli altri passeggeri, e per rispetto di quelle persone che sicuramente non erano a conoscenza di quanto si ordisse ai miei danni, ho evitato di dire all’autista di accendere il router. Credo la Spagna abbia apprezzato. Pochi chilometri dopo le lande colorate, quasi olandesi che non han bisogno di fiori, delle rupi con una voce quasi abruzzese e dei colori quasi dolomitici si sono imposti allo sguardo, rudi ed elegantissimi, per poi concedere all’occhio l’occhio della Cuenca, poco prima di tornare a Valencia. A tutto questo c’è da aggiungere che in terra iberica, anche a starsene lontani miglia, ovunque intuisci il mare.

Arrivo a Valencia. Anche qui un aeroporto, ma, a differenza di quello, questo, appena un chilometro fuori città, non ti invita ad andartene, ma ti accoglie quasi.

Ecco, in questo momento, così vivo da pensare ancora sia quel momento, tanto ha significato Valencia, son sereno. Non vedo complotti, ma un autobus pieno di migranti, spagnoli, turisti, me, che si spostano, ciascuno per il proprio destino con sono un mezzo in comune. Sono un po’ nervoso, si, perché da ore scrivo alla mia amica per avvisarla del mio arrivo e non ricevo risposta. Una volta lì l’aspetto disteso per una mezzora su una panchina perso tra il cielo e alcuni pensieri, diversi da quelli di cui qui parlo, ma di cui quasi non mi importa o che quasi non ricordo o che, ancor meno di quelli sul complotto, capisco.

Alla fine suono a casa sua, entro. Che sia anche lei parte del complotto? Mi spiega di non aver ricevuto alcun messaggio, mi dice di avermi scritto ed io tampoco* ho avuto da lei alcuna informazione. Lei è di corsa. Cinema all’aperto. Tre euro e cinquanta. Penso sia un po’ caro per stare all’aperto e rinuncio e poi forse son stanco. Dovrei mangiare qualcosa. Lei esce. Io aspetto. Sereno. Poi comincio a fare il turista, a scoprire la città da solo, come ho sempre fatto.

C’è un posto che conosco, probabilmente gestito da italiani che spero sia aperto ed, invece devo cercare oltre. Mi ritrovo in un bar, chiedo se la cucina è aperta ed ordino una tostata* e delle patatas bravas con chorrizo**. Son lì da solo che bevo e fumo. Comincio a mangiare e le tre ragazze sedute al tavolo con un ragazzo, che poi scoprirò essere gay, mi guardano. Sembra tutto vada per il meglio. Io faccio il vago, penso a nutrirmi, non voglio disturbare e spero che questo mi atteggiamento non sembri quello di uno che non vuol essere disturbato.

Dopo un po’ una delle tre, violenta nella sua sensuale bellezza da ballerina di flamenco, mi si avvicina e mi chiede cosa stia mangiando, spiegando che con loro il servizio non è stato eccezionale, che han dovuto cucinar da se la loro comida***.

Mi invitano al loro tavolo. Una di loro mi fissa tutto il tempo. Ridiamo del fatto che io parli francese e che per farlo mi basta “pensare in italiano, poi pensare di essere stupido e parlare francese”. La danzatrice dice che userà la stessa frase per gli inglesi. Racconto di me, del mio progetto sulle lingue, dei miei viaggi, delle lingue che parlo, mi parlan di loro, confrontiamo Italia e Spagna. Dopo un po’ ridiamo del bar che ad ogni minuto peggiora nel servizio. Lascio a tutti loro delle informazioni, il mio nome e col pezzo che avanza riservo un tavolo a Juan Carlos. Cerchiamo un altro bar, andiamo a ballare. Ci provo con quella che mi guarda fisso, le lascio i miei contatti, mi dice che ha un ragazzo e chiedo se allora ci si può rivedere tutti insieme l’indomani.

Come vedete son stato anche bene. Ci son stati momenti in cui al complotto davvero non ci pensavo. Quelli in cui il complotto si è evoluto, articolato, ha assunto dinamiche e dimensioni fuori dalla mia portata.

La discoteca dove ci troviamo offre due attrazioni fondamentali: un gruppo di bellissime finlandesi che ballano ed un tipo, capelli bianchi, leggermente in sovrappeso per la sua pancia gonfia di birra e mojito, che ci prova, in maniera goffa e volgare, offensiva per le vittime, divertente per chiunque altro si trovi a passare.

Le finlandesi son probabilmente lì in gita da un paese vicino con residenti esclusivamente provenienti dalla loro nazione e con un sindaco finlandese. Una piccola colonia non ufficiale all’altro capo dell’Europa a cui, a suo tempo Zapatero ha espresso il tributo di un benvenuto. Escludo che in questa storia che racconto c’entri la mafia finlandese. Escludo che esista una mafia finlandese.

Comunque, alla fine gli spagnoli van via, non so se offesi dalla mia avance ad una di loro o dal mio essermi messi a parlare con degli italiani o solo perché, come m’han detto l’indomani dovevano andare a lavorare. Vacillo tra la seconda ipotesi (forse anche loro son coinvolti, forse non vogliono che parli con qualcuno che è escluso da questo piano) e la terza. Mi fido. Resto lì, guardo ancora un po’ le sirene scandinave, odoranti di Russia ed esco. Do un’occhiata ad un altro paio di locali poi mi fermo su una panchina rotonda e tutt’intorno a me sento solo degli italiani. Toscani, emiliani, abruzzesi. Una tipa, rumena probabilmente, a cui chiedo se ci siano altri locali ad ingresso libero in giro mi dice che non devo aspettarmi granché se non voglio pagare. Così mi fermo lì vedo cosa succede in giro. In un attimo ricomincia la messa in scena, il piano, il circo delle azioni messe lì per distrarmi. Anche degli italiani non ci si può fidare o forse si dovrebbe trarre esperienza da quello che da lì a poco succederà ad uno di loro.

Sembran tutti tranquilli; piccoli bottellon illegali, dei bengalesi, come a Bologna a dare in giro birra in barattolo, ma nessuna minaccia. Valencia è abilissima a dissimulare il pericolo. In un momento un negro ne aggredisce un altro. In meno di un momento la polizia li blocca entrambi, soprattutto quello aggredito. La tensione non sale. Polizia e africani si scambiano delle domande, i neri mostrano i documenti. Tutto si risolve con una multa o poco più.

Un tipo italiano, particolarmente ubriaco, gioca a fare il saluto romano ogni volta che passano dei tassisti. I tassisti, questi muli che trasportano turisti e sconosciuti in giro, ci mettono un attimo a diventar capre. Noi si ride, si fuma. Un amico dell’italiano ubriaco chiede del fumo ai venditori di birra. Provo a dirgli che è offensivo per loro sentirsi rivolgere una simile domanda. Lui non fa caso alle mie parole e continua. Anche se fossi in pericolo, gli italiani sarebbero gli ultimi su cui potrei contare. Intanto quello più ubriaco, che nel frattempo ho scoperto essere figlio di un regista di commediole all’italiana a strusciarsi con una che chiaramente sotto i 50 un sentimento protorumeno non lo avrebbe dimostrato mai, provando a convincerla a farsela dare gratis, accettando in fine di trattare sui 40. Nel frattempo dei nerboruti amici della signorina, seduti placidi accanto, gli hanno sfilato l’iphone.

“Sarebbe un ottimo soggetto per un film di tuo padre, no?”

Loro continuano a provarci con delle ragazze emiliane. Io vado via. A ripensarci ora, questo giorno è un continuo andar via. Per strada, vicino alla porta de Dos Serranos, un tipo africano mi chiede se io parli inglese e francese. Gli rispondo di si. Mi chiede di spiegare a due bulgari (e qui il cerchio si chiude) che lui può affittare una casa con tre stanze a quattrocento euro; glielo spiego, ma l’africano è convinto che non traduca bene fino a quando non gli dico che i ragazzi non vogliono spendere più di 160 euro per un mese.

Son cose che succedono, no? Perché ci continuo a pensare? È la vita.

 

 

Viaggio in Spagna 3 – Bulgari in casa (double trouble)

intro

 

 

A svegliarmi è l’angoscia, senza scuotermi, quasi appoggiandosi lievemente sul bordo del mio giaciglio, sorridendo materna in attesa che i miei occhi si aprano, paziente e silenziosa, con in faccia un pallore tenue da tendine che la rischiara, imbellettandole un viso ora grigio ora cadaverico, delle prime luci del mattino. C’è tanta tranquillità nella sua persona, nessuna ansia, niente che la disturbi o che la aiuti a disturbare. Mi entra lentamente nel naso come un odore di pane tostato e di mimosa mentre respira.

L’angoscia è l’assenza di felicità, l’unica compagnia possibile in una stanza altrimenti vuota. La tristezza, il dolore, la disperazione, a loro modo, sono ancora felicità, un intuirla, uno sperarci, un crederci, ma l’angoscia, quella che mi fa scrivere in questo modo, che mi fa andare in cucina a preparare il caffè per poter fumare la prima sigaretta della giornata, che ti fa stare in casa, che si serve di te per esprimere la propria aggressività, che mi fa scrivere di cose passate che non sono più e quindi forse mai sono state, è semplicemente un’assenza tale, che la tristezza sarebbe già un appiglio.

Di angosce ce ne son tante, quasi tutte con volto di donna. Vecchie, logore, insoddisfatte e giovani, invisibili, esperte, professionali. Mentre scrivo con me ce ne sono almeno tre, quella che scrive, quella che pensa e ricorda e quella del momento ricordato, la prima di miele, la seconda di cera, la terza di cristallo e limone.

Quella che scrive la vedete, la seconda, invece, è confusa e confonde con i miei discorsi anche me che vorrei trovare un ordine, una sequenza, un’armonia in quanto ricordo. Quello che penso e quello che ricordo diventano una strana unità che si modifica reciprocamente, senza possibilità di scindere idee e memorie.

Penso all’autobus polacco dirottato, alla polizia spagnola, a Barcellona, ai miei anni in Polonia, ricordo i dettagli, gli errori, le giustificazioni mentre provo a separare gli elementi e a tenerli tutti insieme. L’angoscia è nel pensare che ci sia un piano, un destino, un caos che in qualche modo possa essere regolato, chiarito, spiegato perché non si ripeta e che tutto torni sereno e piano. Se ne sta lì lei, serena, seduta sul letto, con i miei occhi che più la riconoscono più la temono e più la temono più vi si arrendono. È la sua quiete che quasi mi fa urlare, la coscienza che qualunque cosa io possa fare o dire, lei non cambierà d’atteggiamento o d’espressione. Mi incoraggia anche per un po’, consolandomi nel convincermi che forse, in qualche modo, anch’io possa aver ragione. Sembra dirmi: “Ma si, sicuramente devi solo pensarci un po’ su, ci deve essere una spiegazione a tutto questo, devi solo star calmo se vuoi che tutto sia più chiaro, prova ad collegare questo elemento a quest’altro, che ne so? La fuga dalla Polonia alla polizia spagnola, o i tipi che fumavano in corriera con il tuo rientro in Italia. Semplice no?”. Così mi parla, e più mi parla più mi inquieta e più mi inquieta più, stancandomi, mi calma.

Alla fine vince, senza che ci si senta in torto ma senza neanche il desiderio di aver ragione e così accetti che sia sempre tutto un caso, che non c’è da cercarci un piano dietro o della cattiveria o della bontà altrimenti si rischia, anche a non essere angosciati, di sprecare la vita dietro idee e pensieri inutili, poco pratici.

Inoltre ci sono angosce, come quella di cristallo e limone, che quasi divertono, che alleggeriscono gli addii, che distraggono da qualcosa che potrebbe anche essere peggio. Ma si, son solo cose su cui favoleggio io; non ho fatto del male a nessuno, è tutto solo un gran caos, non c’è chi abbia tempo da perdere su cose del genere se non me, che è anche giusto che cominci ad abbandonare simili fantasie.

La terza angoscia, tra l’altro, quella che da un lato potrebbe aver determinato questi miei pensieri era si tale già all’origine, ma le bevute per attenuare la mestizia della partenza, nel primo pomeriggio dell’ultimo giorno a Valencia, tutta l’allegria e la gioia che avevo accumulato nei giorni precedenti, la sensazione d’Africa e mare ad ogni passo, il voler rendere a chicchessia quello che avevo ricevuto da infiniti chiunque quasi sconosciuti, mi avevano in qualche modo reso affascinante e divertente una storia che di per se aveva tutti i numeri per non esserlo affatto.

Immaginatemi felice, puro sole, che mi avvio lentamente, dopo un primo accenno di fretta al risveglio, verso la stazione degli autobus a Valencia, sperando ad ogni passo, di far tardi per acquistare l’ultimo biglietto disponibile, contento di questa illusione e preoccupato dalle possibili conseguenze della stessa, ossia l’impossibilità, quantomeno temporanea, di abbandonare la Spagna. Ora immaginatemi venti minuti dopo con un biglietto in tasca, triste della mia prossima partenza e felice di tutto quanto nel frattempo ho vissuto, del sorriso che non smetteva di sorridere, delle bevute e delle persone incontrate, di un incanto di secoli per le strade vecchio di millenni, libero, tra felicità e dispiacere. Pronto a far saltare tutto, a buttar via il biglietto, a rischiare. Un biglietto in tasca è una possibilità, uno tirato in strada sono almeno due.

Non c’è stato un momento a Valencia in cui abbia percepito la possibilità del benché minimo pericolo, se non quello di una noia da una felicità senza fine. Lì la gente ti parla, saluta, è disponibile, allegra, ti accoglie ed invita, che siano di Valencia o solo turisti di passaggio per le vacanze estive. Corre, ovunque, sonnacchiosa, con ritmi ed orari che trovi solo qui, o che almeno solo qui mi è riuscito di trovare, persone che passeggiano alle quattro del mattino, o alle sei del pomeriggio vanno a lavorare o ancora sedute fuori sulle terrazze a mezzogiorno a far colazione, come quei due sulla mia strada, mentre rientro dall’amica con cui trascorrerò le ultime ore, che mi salutano…ricambio il saluto, proseguo, poi, come per provare a riconoscerli mi volto indietro e torno sui miei passi.

Erano due bulgari, B. e N., che avevo incontrato la notte precedente. Ho ancora del tempo ed allora mi metto a sedere con loro. Prendo un caffè giusto per una pausa tra le mille birre bevute.

N. è un ragazzo sui ventiquattro anni, capelli nati dal gel, biondo, una camicia aperta su un petto glabro ed un grande crocefisso di ferro e di rame. Sorride spesso, di un sorriso tonto più che divertito e compiaciuto. Solo lui dei due parla inglese, neanche tanto bene. Mi racconta che è in Spagna col suo amico a cercar lavoro, che di lì a poche ore lui andrà a Barcellona, mentre l’altro N. si fermerà a Valencia e cercherà qualcosa lì.

N. ha lineamenti più slavi rispetto a B. che sembra quasi tedesco. N. ha tatuaggi su quasi tutto il corpo, immagini sacre, tribali, animali vari; ha i capelli corti, lo sguardo forte, un pizzetto delineato. Sembra irritarsi ad ogni parola ed ha bisogno di B. per poter comunicare con me non parlando nessuna lingua, tranne la sua.

B, sta al telefono, cercando probabilmente di soldi o un aiuto per prendere l’autobus. Suggerisco a N. di provare a chiedere al supermercato russo che è lì a pochi metri per vedere se possono aiutarlo col lavoro visto che non poter comunicare con nessuno potrebbe essere un problema.

 

supermercato

B. mi dice che cercano casa ed allora, per pura generosità, per aiutare sia loro che una mia amica che affitta delle stanze ci scambiamo i numeri dicendogli di non promettergli niente, ma di poter provare e che verso le cinque mi sarei fatto sentire.

Ne parlo con la mia amica. Le informazioni che le do son quelle di cui dispongo anch’io, ma mentre gliele elenco mi chiedo, ad ogni punto se sia una buona idea parlargliene: solo uno dei due parla inglese, cercano lavoro, si fermano per certo una settimana poi forse un mese, li ho conosciuti ubriachi da ubriaco per strada la notte precedente, abbigliamento, modo di fare. Lei valuta tutto, anche il mese d’affitto che eventualmente riuscirebbe ad incassare. Mi dice che per lei va bene, che posso chiamarli. Ci vogliono un’ora e non so quanti messaggi per spiegargli come raggiungere casa.

Mentre gli aspettiamo, nascondendoci reciprocamente delle preoccupazioni minimali, beviamo un po’, ascoltiamo della musica, parliamo di noi parlando delle canzoni, ridiamo di quanto sarà difficile spiegargli che non devono chiudere la porta per non bloccare chi è dentro e di come aprirla al momento di entrare. Arrivano che son giù ad aspettare da venti minuti e sono io a dovergli urlare per dirgli di salire.

 

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Io me ne sto in disparte, sempre attento ad ascoltare che non succeda niente di male a lei (ed in un secondo tempo a me). Ho un timore sottile che trascuro parlando su internet con degli amici; il cane che è in casa, Calimero, è sempre steso su due cuscini gettati a terra, quasi in attesa che gli mettano la ciotola sotto il muso per mangiare, immobile, salvo alcuni movimenti della testa o piccoli spostamenti, come un bambino sereno che cerchi la posizione migliore per dormire. Fosse in strada digrignerebbe i denti, correrebbe, ma in casa è solo un monumento dal pelo curato e nero alla pigrizia ed alla noia.

Vado a prendere le mie cose dalla stanza dove o dormito fino alla notte prima e le sposto per liberare i letti ai ragazzi, aiuto la mia amica a chiarire le ultime cose. Arrivati al pagamento B. tira fuori una banconota da cento euro. La preoccupazione bussa alle porte dell’angoscia per vedere se in casa, l’angoscia la lascia entrare. La mia amica chiede che li vadano a cambiare perché non ha resto.

Loro si allontanano e per alcuni minuti io e lei non parliamo, poi entrambi attacchiamo direttamente a riconsiderare i nostri dubbi, soprattutto in funzione del denaro. Ed anche qui qualcosa non torna.

I due, per quanto provenienti da un paese che nell’immaginario italiano è solo povertà e aggressioni, si son dimostrati soprattutto goffi, molto educati, quasi timorosi a chiedere quanto gli spettasse come ospiti paganti, stupidi in un certo modo, cortesi nel salutar sempre, nel dire “per favore”, concedendo la precedenza ad andare in bagno o interrogandosi per sapere se non stiano disturbando troppo. Averli in casa non preoccupa, è uscire che fa nascere sospetti e piccole paure. Son vestiti così bene che con quello che spendono loro a comprare dei jeans ed una camicia io ci riempirei tre valigie, hanno iphone modernissimi, B. soprattutto ha la pelle curatissima, un portafoglio con banconote di grosso taglio (che cambieranno al supermercato sotto casa comprando un Gatorade) e poi escono in continuazione. Non hanno neanche poggiato le valigie che sono usciti per cambiare i soldi. E fin qui va bene. Poi sono usciti, una volta ricevute le chiavi per una ventina di minuti e son rientrati. Una terza volta, per comprare una scheda telefonica spagnola da un negozio all’angolo son stati via quasi due ore. Il pericolo è meglio averlo in casa, sotto controllo, male che vada attacca ed esplode, ma quando è fuori dalle mura, è lì che non si riesce a star tranquilli a non sapere cosa fa, chi incontra, quali sono i suoi movimenti e le sue intenzioni. L’angoscia, al contrario della paura, ha di quei trucchi che rendono più pericolose le situazioni più lontane.

Dopo qualche ora arriva anche il coinquilino della mia amica. In tre saremo più tranquilli e ci illuderemo di essere più sicuri. In fondo non avevano la faccia da criminali. Dediti a qualche piccolo reato, forse, spaccio di marijuana, borseggio, piccoli furti, ma in casa c’è ben poco da rubare. La povertà, a suo modo, è la prima forma di sicurezza.

I bulgari, intanto, rientrano, fanno la doccia, si lavano nel profumo, cambiano i vestiti e…restano in casa. Mi sento un po’ responsabile per questa situazione, ma alla mia amica ho detto tu, è stata lei alla fine a prendere una decisione, io potevo semplicemente dire ai due che non c’era posto in casa, ma lei mi ha detto di chiamarli e di farli venire. Ma è la poca sobrietà a farmi sentire l’angoscia, la gente è buona, non han fatto altro, tutti, che volermi bene da quando sono arrivato. Non succederà niente. Si, forse sono un po’ rozzi nella loro eleganza da mostrare, ma son brave persone. Chiedo a lei ed al suo coinquilino se vogliono uscire e mi rispondono di no.

Io faccio la doccia, esco, vado a comprare delle cartoline, un altro paio di birre e delle foto al soffitto di un bar dove son stato una delle prime sere. Faccio un po’ il turista.

b

a

Torno a casa dopo un paio d’ore. Chiudo la valigia, dormo un po’, fino alle 8. Nella notte non è successo niente mi racconta la mia amica mentre beviamo un caffè assieme prima di accompagnarmi all’autostazione.

Tanta angoscia inutile alla fine. Non ci son complotti, cattiverie, congiure contro di me, di alcun tipo. È solo un malessere personale che probabilmente mi porta ad immaginare troppo, a temere cose che non esistono, a rovinarmi una vita che tutto sommato potrebbe esser felice.

Ma si, posso dormir sereno, il mondo è in pace…

A svegliarmi non è questa volta l’angoscia, ma un messaggio della mia amica dove scrive: “B. ha detto che lascia la casa perché N. gli ha rubato tutti i soldi e non sa dove andarlo a cercare. Ha detto che usciva. Ma dove andrà a bere e mangiare senza soldi? Dove andrà a dormire? Strani no?”