Volevo far del bene ed ho fatto un errore. Mi sembra quasi che, in una prospettiva quasi sistemica, il bene tenda a nuocere a chi lo attua, senza necessariamente giovare a chi lo riceve, anzi, anche peggio, a volte è come se le conseguenze sul benefattore dipendano pressoché interamente dalla poca disponibilità del beneficiario ad accettare e rispettare che qualcuno gli si doni. Volevo fornire solo aiuto e mi son trovato ad creato solo dei problemi, eppure..
Non dovrei colpevolizzarmi per i miei sentimenti, per primo da me stesso, eppure..
Tutto è molto più chiaro di come lo espongo, il punto è che non lo espongo per com’è, ma per come lo ricordo, da un punto diverso da quello in cui queste esperienze si sono accumulate. Nei bar si parla una lingua così comune da infastidirmi, non c’è mare qui, più che gotiche le costruzioni sono medievali, la gente ride poco, parla ancora meno, legge, tanto, dagli iphone soprattutto, neanche un giornale aperto, o bambini liberi di fare quel che gli pare. Probabilmente è solo questo, è il mondo intorno, per quanto il mondo sia uguale, che mi modifica le percezioni e mi fa pensare a complotti o strategie finalizzate a chissà cosa.
Un esempio. I negri per strada. Qui Bologna: camminano liberi, ti si avvicinano, ti chiedono un caffè o si mettono a chiacchierare ossessivi come i loro jingle introduttivi, le loro filastrocche e le faccia tristi ricamate in faccia come se l’Africa che si portano dietro non fosse altro che desolazione. Qui Valencia: la prima impressione è che facessero delle corse con dei grossi sacchi in spalla, senza mai perdersi di vista, mentre giocano, correndo, a nascondino. Solo in un secondo tempo avrei capito che erano in realtà in fuga, come gazzelle inseguite da tigri in divisa. Eppure…
Eppure lì, per quanto limitati nelle loro attività, sorridono, delle loro fughe, dei loro giochi, delle loro chiacchere, poggiano di tanto in tanto i loro sacchi per terra, in un attimo li aprono, in un attimo li richiudono e tornano a correre. Qui, con le loro borse in spalla, quasi più stanchi se si mostrano allegri è più per marketing e mestiere che per allegrie spontanee. Probabilmente i negri assorbono meglio le energie che li circondano, in Spagna, come in Italia, come in Francia, come ovunque.
Se loro son sereni, perché io penso di essere assorbito in chissà quale piano più grande di me? Anche Calimero non si muoveva se non per giocare in strada. Io invece no, è come se a me ogni serenità o felicità fosse impedita, da me stesso se non da altri, eppure lì per lì molte delle cose che mi è capitato di vedere mi han fatto sorridere, m’han divertito, ma adesso, a ripensarci, quei momenti fugaci riesco a fatica a recuperarli.
Per lo meno sto avanzando delle ipotesi e questo è già un gran passo avanti: la prima ipotesi è che questa inquietudine dipenda da me, la seconda dal posto in cui mi trovo, la terza che ci sia un complotto generale che mi costringe a vivere e sentire le cose in un certo modo. Procediamo per esclusione.
Io non sono sempre lo stesso (biologicamente, psicologicamente, ecc.); a volte mi capita di sorridere di star bene addirittura, senza che la mia vita quotidiana sia molto diversa quel particolare giorno rispetto agli altri. Quindi, su di me non posso fondare una teoria, né trovare in me una causa o una giustificazione.
Seconda ipotesi: il posto in cui mi trovo in un determinato periodo della mia vita. Anche questa ipotesi ha i suoi limiti. Il primo è simile a quello precedente. Se me ne stessi in un posto in cui non potrei che essere felice sarebbe come essere condannato a starci, a tornare ad una nuova casa di grate e di muri, che accolgono si, ma non liberano. Se libertà e felicità han limiti, allora non sono. Una cosa o è sempre tutto ovunque o non è. Tra l’altro, mi capita anche qui di ricordare quei momenti e di essere ancora felice, di riviverli. Se evado un attimo da questa paranoia del complotto son quasi orgoglioso di quel che sono stato e di quel che sono stato capace di fare, dall’ospitalità ai bulgari alla fuga di ritorno in Italia, al mio farmi guida e traduttore. Mi son sentito quasi motore di quanto accadeva intorno a me, eppure, un retro-pensiero mi picchettava sulla nuca e mi diceva che “no, tu fai così perché devi far così. Ti è sembrato normale trovare dei polacchi a guidare un pullman dalla Spagna all’Italia? E la polizia? Speravi ti bloccasse a Barcellona? Volevi tu che ci fossero i bulgari a quel tavolo dopo aver fatto i biglietti? C’erano quando sei andato in autostazione? Ti sei chiesto come mai li hai trovati al ritorno? E perché c’è stato il furto tra di loro dopo che tu sei andato via?”
Ti auguravi di trovarli per strada, quasi all’alba, mentre rientravi ubriaco, la notte prima? Perché è allora che è cominciato tutto la notte prima. O no? Non resta che l’ipotesi del complotto, la più ovvia e la più difficile.
La sera prima, a cominciare dal tardo pomeriggio, di cose ne son successe tante e tutte, apparentemente, scollegate tra loro.
Fino alle dodici avevo tentato di trovare un posto per dormire a Barcellona, almeno un giorno, o quantomeno un posto dove depositare qualche ora le valigie, non per vedere la città o farmi rapire dai suoi incanti, ma per ragioni che al momento mi riesce difficile ricordare. Avevo speso ore a discutere del concetto di “emergenza” ed “urgenza” con dei tipi che avrebbero potuto semplicemente dirmi che non avevano modo di accogliermi, anziché perder tempo a giudicare la mia scarsa organizzazione del viaggio. Un viaggio organizzato, dopo questa nuova esperienza lo so, è, in fin dei conti, poco più di un breve trasloco.
Dopo aver salutato tutti quelli che avevo incontrato a Madrid, dove mi ero fermato per alcuni giorni, sperando di poter mantenere un qualunque contatto con loro, son salito in metro e ho isto un signore, sulla sessantina che vendeva fazzoletti e chiedeva degli spiccioli per avere un sostentamento durante la crisi. Non mi sembrava nessuno fosse raffreddato, ma molti sudavano e si sentiva. Se l’offerta del vecchio appariva inizialmente bizzarra nella prima prospettiva, nella seconda acquisiva un certo significato. Dico questo per dire che non tutto era strano o irragionevole come quanto fin qui narrato potrebbe far pensare. C’è stato un breve dibattito con un mio amico sull’illogicità ed anti-economicità dell’attività del venditore, ossia, sulla possibilità che non vendendo almeno due o tre pacchetti, ed avendo pagato il biglietto per salire in metro, il suo commercio avrebbe solo aggravato la sua condizione. In pochi secondi, l’apparente sensatezza che aveva rimpiazzato la stoltezza iniziale, veniva, nella mia analisi, nuovamente riportata nell’ambito dell’improbabile se non proprio dell’impossibile. Non c’era niente, fino ad ora che avesse la benché minima stabilità e ragione d’essere. Il mio amico, sceso insieme a lui dopo due fermata, aveva avanzato l’ipotesi che forse il signore sfruttava quelle fermate di metro che avrebbe comunque dovuto fare per rientrare a casa per provare a tirar su qualche centesimo, ma non appena il vecchio aveva abbandonato il mio vagone, subito l’ho rivisto comparire su quello successivo.
Dopo venti minuti sono sul bus.
I bus spagnoli sembrano salotti reali con poltrone in pelle ed offrono una temperatura mite, un senso di tranquillità durante il viaggio e collegamento ad internet. Chiedo se alla prima ed unica sosta posso recuperare il laptop per collegarmi durante la seconda parte del viaggio e l’autista acconsente. Accanto a me c’è una ragazza svizzera, bionda, che è lì da un mese per migliorare il suo spagnolo. Ha un bel seno e quel senso di alienità che hanno le nazioni senza mare, soprattutto quelle dall’indole neutrale. Scambiamo alcune parole, le chiedo se in qualche modo la stia disturbando e mi confessa che “no, non mi disturbi, solo che vorrei dormire un po’”. Provo ad insistere un attimo per incontrarla la sera, ma è distaccata (non capisco come sia possibile essere distaccati con tutto quello che sta succedendo a me e con tutti i tifoni che muovono la Spagna). Fingo di addormentarmi per incoraggiare il suo sonno e verificare se la sua prosperità non sia solo frutto di tecnologie speciali applicate all’abbigliamento intimo femminile o, al contrario, il frutto di un duro regime nazionale a base di precisione, banche e cioccolata. Non è stata una gran distrazione la Svizzera alla fine.
Ci fermiamo. È un autogrill, come molti in Spagna, un po’ spostato (almeno un paio di chilometri) dall’autostrada. Di fronte a me c’è un campo, leggermente ondulato, diviso in differente strisce di colore, dal giallo, al rosso, al verde, alla terra bruna. Recupero il mio laptop e salgo a bordo. Per alcuni minuti ho una connessione velocissima, dopo poche centinaia di metri scompare e torno ad avanzare due ipotesi: la prima, che la connessione che sfruttavo inizialmente fosse quella di un altro autobus che andava verso Salamanca; la seconda che quelli che seguono il mio viaggio e complottano contro di me, non vogliono che io, almeno durante gli spostamenti, comunichi con persone a me familiari via internet. Posso ancora usare il telefono, ma chiamare adesso potrebbe limitare la mia libertà decisionale nei momenti in cui ne avrò realmente bisogno.
Non so quanto gli spagnoli, polizia esclusa, facciano parte di questo complotto, perché il fatto che io sia stato lì e che ora mi trovi qui, come ho provato a dimostrare, può spiegarsi solo con questa ipotesi. Mi concedo di dedicare a questa gente alcune parole.
Flemma è una parola che è entrata nel dizionario italiano intorno al ‘600 per indicare lo stile di vita della gente di quella nazione, per le loro sieste (che trovo geniali per regolare, almeno nei paesi caldi, il ritmo lavorativo), per il loro modo di rapportarsi alle cose, per la loro disponibilità verso tutto e tutti. Parlo da turista perseguitato da un complotto, vorrei ricordarlo, eppure, l’impressione di aver esperito un ritmo di vita umano mi sta addosso come l’afa di Bologna in questi pochi giorni di transito.
“Sai perché ci sono meno incidenti in Germania che in Spagna?” mi han chiesto per poi rispondermi un attimo dopo: “Perché in Germania non hai un limite di velocità e all’occorrenza i tuoi riflessi son pronti a reagire, qui da noi, invece, abituati come siamo ad andar piano, alla prima frenata c’è un tamponamento”. Con questa premessa non me la son sentita di mettere in pericolo la mia vita e quella degli altri passeggeri, e per rispetto di quelle persone che sicuramente non erano a conoscenza di quanto si ordisse ai miei danni, ho evitato di dire all’autista di accendere il router. Credo la Spagna abbia apprezzato. Pochi chilometri dopo le lande colorate, quasi olandesi che non han bisogno di fiori, delle rupi con una voce quasi abruzzese e dei colori quasi dolomitici si sono imposti allo sguardo, rudi ed elegantissimi, per poi concedere all’occhio l’occhio della Cuenca, poco prima di tornare a Valencia. A tutto questo c’è da aggiungere che in terra iberica, anche a starsene lontani miglia, ovunque intuisci il mare.
Arrivo a Valencia. Anche qui un aeroporto, ma, a differenza di quello, questo, appena un chilometro fuori città, non ti invita ad andartene, ma ti accoglie quasi.
Ecco, in questo momento, così vivo da pensare ancora sia quel momento, tanto ha significato Valencia, son sereno. Non vedo complotti, ma un autobus pieno di migranti, spagnoli, turisti, me, che si spostano, ciascuno per il proprio destino con sono un mezzo in comune. Sono un po’ nervoso, si, perché da ore scrivo alla mia amica per avvisarla del mio arrivo e non ricevo risposta. Una volta lì l’aspetto disteso per una mezzora su una panchina perso tra il cielo e alcuni pensieri, diversi da quelli di cui qui parlo, ma di cui quasi non mi importa o che quasi non ricordo o che, ancor meno di quelli sul complotto, capisco.
Alla fine suono a casa sua, entro. Che sia anche lei parte del complotto? Mi spiega di non aver ricevuto alcun messaggio, mi dice di avermi scritto ed io tampoco* ho avuto da lei alcuna informazione. Lei è di corsa. Cinema all’aperto. Tre euro e cinquanta. Penso sia un po’ caro per stare all’aperto e rinuncio e poi forse son stanco. Dovrei mangiare qualcosa. Lei esce. Io aspetto. Sereno. Poi comincio a fare il turista, a scoprire la città da solo, come ho sempre fatto.
C’è un posto che conosco, probabilmente gestito da italiani che spero sia aperto ed, invece devo cercare oltre. Mi ritrovo in un bar, chiedo se la cucina è aperta ed ordino una tostata* e delle patatas bravas con chorrizo**. Son lì da solo che bevo e fumo. Comincio a mangiare e le tre ragazze sedute al tavolo con un ragazzo, che poi scoprirò essere gay, mi guardano. Sembra tutto vada per il meglio. Io faccio il vago, penso a nutrirmi, non voglio disturbare e spero che questo mi atteggiamento non sembri quello di uno che non vuol essere disturbato.
Dopo un po’ una delle tre, violenta nella sua sensuale bellezza da ballerina di flamenco, mi si avvicina e mi chiede cosa stia mangiando, spiegando che con loro il servizio non è stato eccezionale, che han dovuto cucinar da se la loro comida***.
Mi invitano al loro tavolo. Una di loro mi fissa tutto il tempo. Ridiamo del fatto che io parli francese e che per farlo mi basta “pensare in italiano, poi pensare di essere stupido e parlare francese”. La danzatrice dice che userà la stessa frase per gli inglesi. Racconto di me, del mio progetto sulle lingue, dei miei viaggi, delle lingue che parlo, mi parlan di loro, confrontiamo Italia e Spagna. Dopo un po’ ridiamo del bar che ad ogni minuto peggiora nel servizio. Lascio a tutti loro delle informazioni, il mio nome e col pezzo che avanza riservo un tavolo a Juan Carlos. Cerchiamo un altro bar, andiamo a ballare. Ci provo con quella che mi guarda fisso, le lascio i miei contatti, mi dice che ha un ragazzo e chiedo se allora ci si può rivedere tutti insieme l’indomani.
Come vedete son stato anche bene. Ci son stati momenti in cui al complotto davvero non ci pensavo. Quelli in cui il complotto si è evoluto, articolato, ha assunto dinamiche e dimensioni fuori dalla mia portata.
La discoteca dove ci troviamo offre due attrazioni fondamentali: un gruppo di bellissime finlandesi che ballano ed un tipo, capelli bianchi, leggermente in sovrappeso per la sua pancia gonfia di birra e mojito, che ci prova, in maniera goffa e volgare, offensiva per le vittime, divertente per chiunque altro si trovi a passare.
Le finlandesi son probabilmente lì in gita da un paese vicino con residenti esclusivamente provenienti dalla loro nazione e con un sindaco finlandese. Una piccola colonia non ufficiale all’altro capo dell’Europa a cui, a suo tempo Zapatero ha espresso il tributo di un benvenuto. Escludo che in questa storia che racconto c’entri la mafia finlandese. Escludo che esista una mafia finlandese.
Comunque, alla fine gli spagnoli van via, non so se offesi dalla mia avance ad una di loro o dal mio essermi messi a parlare con degli italiani o solo perché, come m’han detto l’indomani dovevano andare a lavorare. Vacillo tra la seconda ipotesi (forse anche loro son coinvolti, forse non vogliono che parli con qualcuno che è escluso da questo piano) e la terza. Mi fido. Resto lì, guardo ancora un po’ le sirene scandinave, odoranti di Russia ed esco. Do un’occhiata ad un altro paio di locali poi mi fermo su una panchina rotonda e tutt’intorno a me sento solo degli italiani. Toscani, emiliani, abruzzesi. Una tipa, rumena probabilmente, a cui chiedo se ci siano altri locali ad ingresso libero in giro mi dice che non devo aspettarmi granché se non voglio pagare. Così mi fermo lì vedo cosa succede in giro. In un attimo ricomincia la messa in scena, il piano, il circo delle azioni messe lì per distrarmi. Anche degli italiani non ci si può fidare o forse si dovrebbe trarre esperienza da quello che da lì a poco succederà ad uno di loro.
Sembran tutti tranquilli; piccoli bottellon illegali, dei bengalesi, come a Bologna a dare in giro birra in barattolo, ma nessuna minaccia. Valencia è abilissima a dissimulare il pericolo. In un momento un negro ne aggredisce un altro. In meno di un momento la polizia li blocca entrambi, soprattutto quello aggredito. La tensione non sale. Polizia e africani si scambiano delle domande, i neri mostrano i documenti. Tutto si risolve con una multa o poco più.
Un tipo italiano, particolarmente ubriaco, gioca a fare il saluto romano ogni volta che passano dei tassisti. I tassisti, questi muli che trasportano turisti e sconosciuti in giro, ci mettono un attimo a diventar capre. Noi si ride, si fuma. Un amico dell’italiano ubriaco chiede del fumo ai venditori di birra. Provo a dirgli che è offensivo per loro sentirsi rivolgere una simile domanda. Lui non fa caso alle mie parole e continua. Anche se fossi in pericolo, gli italiani sarebbero gli ultimi su cui potrei contare. Intanto quello più ubriaco, che nel frattempo ho scoperto essere figlio di un regista di commediole all’italiana a strusciarsi con una che chiaramente sotto i 50 un sentimento protorumeno non lo avrebbe dimostrato mai, provando a convincerla a farsela dare gratis, accettando in fine di trattare sui 40. Nel frattempo dei nerboruti amici della signorina, seduti placidi accanto, gli hanno sfilato l’iphone.
“Sarebbe un ottimo soggetto per un film di tuo padre, no?”
Loro continuano a provarci con delle ragazze emiliane. Io vado via. A ripensarci ora, questo giorno è un continuo andar via. Per strada, vicino alla porta de Dos Serranos, un tipo africano mi chiede se io parli inglese e francese. Gli rispondo di si. Mi chiede di spiegare a due bulgari (e qui il cerchio si chiude) che lui può affittare una casa con tre stanze a quattrocento euro; glielo spiego, ma l’africano è convinto che non traduca bene fino a quando non gli dico che i ragazzi non vogliono spendere più di 160 euro per un mese.
Son cose che succedono, no? Perché ci continuo a pensare? È la vita.